A “De Gusto Trebbiano & Food Festival” si celebrano le virtù del vino umbro del “tribulum”.

E spicis in area excuti grana. Quod fit apud alios iumentis iunctis ac tribulo. Id fit e tabula lapidibus aut ferro asperata, quae cum imposito auriga aut pondere grandi trahitur iumentis iunctis, discutit e spica grana.

Sull’aia si svuotano le spighe dei loro chicchi. Il che si fa presso alcuni popoli con una coppia di giumenti a cui è attaccata una trebbia. Questa consiste in una tavola resa rugosa con sassi o ferro: su di essa si fa salire il conducente o ci mettono sopra dei grossi pesi: tirata da giumenti espelle i chicchi di grano della spiga.

Marco Terenzio Varrone, De re rustica, libro 1 cap. 52 (37 a.C.)

Tribulum in latino indicava la trebbiatrice, lo strumento con cui si battevano le spighe di grano per separarne i chicchi: si trattava di una tavola di legno trainata da animali sotto alla quale erano applicate delle punte in silice o altra pietra, o punte di ferro.
Tribulare, ovvero opprimere, affliggere, battere (il grano), ma in forma intransitiva anche soffrire, tribolare, patire le sofferenze come quelle del duro lavoro agricolo e in generale del lavoro: trabajar, trabalhar, travailler in alcune moderne lingue neolatine hanno il significato di “lavorare”.
Piano piano la trebbiatura si è meccanizzata e chi ha già una certa età può ancora ricordare quelle grosse e rumorose macchine, di colore arancione, che come in una via crucis, ad ogni inizio estate stazionavano di aia in aia per svolgere il rituale  della trebbiatura. Rituale a cui partecipavano coralmente attori e spettatori in un clima di festa oltre che di fatica, perché si celebrava il raccolto, cioè ci si assicurava il sostentamento per la stagione a venire e si chiudeva un anno di attesa e di speranza. Nel festeggiare non poteva mancare il vino, già pronto in cantina, unico locale naturalmente refrigerato: vino per brindare, ma anche per rinfrescarsi, per recuperare energie spese.

“[…] Rigorosamente, ai lavoranti assetati, ricoperti di quella polvere finissima che una sorta di ventola buttava fuori dalla trebbiatrice e che si infilava in bocca, nel naso e nelle orecchie, veniva offerto il vino, che l’acqua faceva venire le rane nello stomaco, dicevano, e andava bene sì e no per lavarsi. […]” Testo tratto da
questo bellissimo racconto della trebbiatura nell’Appennino Reggiano.

Vino dissetante, bianco, forse frizzante perché con il ritorno del caldo ricominciava a fermentare, perciò ancor più dissetante. Il vino che accompagnava il tribulum, la trebbiatura, cosa poteva essere se non un trebbiano, uno dei tanti vini bianchi delle campagne del Centro-Nord, che nel nome testimonia il legame indissolubile con il lavoro agricolo dell’Italia mezzadrile? E quale altra tipologia di vino bianco, più di quella dei Trebbiani, possiede i tratti di un vino che garantisce sempre gradevolezza e piacere di beva? Il contadino lo ha sempre saputo e ad ogni latitudine aveva il suo Trebbiano con cui brindare alla conclusione della faticosa trebbiatura.

IMG_6657In un articolo di due anni fa avevo già collegato il nome “Trebbiano” al rituale della trebbiatura e alle fatiche agricole, connessione di cui sono sempre più convinta. L’articolo raccontava la prima edizione di “De Gusto, Trebbiano & Food Festival” evento sapientemente allestito attorno alla riscossa del vino bianco umbro, Trebbiano Spoletino. Dopo due edizioni ambientate nel cuore di Spoleto, l’evento quest’anno ha cambiato scenario, spostandosi nel centro storico di Trevi, graziosissimo borgo a poca distanza da Spoleto, appollaiato su un colle che sovrasta la via Flaminia e la valle spoletino-trevana-folignate. La valle è quella che conserva ancora i resti della cosiddetta alberata, cioè la pratica in uso nell’Italia etrusco-italica-romana, poi mezzadrile, di maritare il tralcio di vite ad un sostegno vivo, ovvero ad una pianta che qui poteva essere un acero o un olmo (per altre notizie sull’alberata rimando ancora al mio precedente articolo). Spoleto, Trevi, Montefalco, Bevagna sono i principali borghi che si affacciano sulla valle a cui si può aggiungere Foligno, poco più a nord. Trevi e Foligno non sono più distretti vitivinicoli, ma un tempo il loro circondario era disseminato di viti maritate. A Trevi si è sempre prodotto un Vin Santo da uve di Trebbiano Spoletino e Trevi rivendica la maternità del vitigno che si ritiene suffragata dal toponimo stesso (antica Trebia, ma tanti sono i toponimi di origine latina dalla radice identica, come le varie Trebula in Sabina e in Campania o il nome del fiume Trebbia, antico Trebia).

A due anni dalla prima edizione di “De Gusto, Trebbiano & Food Festival” non è cambiata solo la location, ma le stesse sorti del vino da Trebbiano Spoletino, ormai diventato il principe dei bianchi umbri per non dire il principe dei vini umbri. Una crescita esponenziale sul piano dei numeri, ma soprattutto della qualità delle bottiglie prodotte, sebbene già annotassi due anni fa che per fare un Trebbiano Spoletino senza qualità ci vuole la ferma volontà di fare un vino cattivo! Tuttavia la qualità negli ultimi anni è aumentata perché i produttori hanno imparato a conoscere il vitigno e le sue innumerevoli doti intrinseche e le sperimentazioni sono approdate a risultati riassumibili in un concetto, sottolineato da Giampiero Pulcini che ha guidato una delle degustazioni della rassegna trevana: il Trebbiano Spoletino è un vitigno malleabile, plasmabile e adattabile a qualsiasi forma di vinificazione, forse il vitigno più adattabile alle differenti scelte di cantina: un jolly nelle mani dei vignaioli. Tra le varie vesti da cucire attorno a vitigno, Pulcini ha scelto di proporre quella della fermentazione con le bucce, pratica antica, non adatta a tutti i vitigni, ma ideale per il Trebbiano Spoletino che con essa guadagna in complessità (ed io aggiungerei: idonea per tutti i Trebbiano perché i contadini, che dell’uva non buttavano via nulla, sceglievano i vitigni più adatti alla macerazione).
Sei vini che la macerazione non omologa, su cui, anzi, imprime caratteri gustativi molto diversi a seconda della provenienza delle uve, dell’altitudine, della tessitura dei suoli e dell’età dei vigneti. “Le Tese” 2017 di Romanelli, proveniente per un terzo da viti maritate, era già entrato nella rosa dei miei preferiti nella degustazione alla cieca riservata alla stampa, con la sua freschezza erbacea e balsamica, intrecciata al frutto delicato, con un’astringenza finale che invita a bagnare ancora il palato; il “Maceratum” 2018 di Fongoli ha l’apparenza di essere il più estremo e possente con quel colore ambrato cupo, in realtà esordisce con una carrellata di profumi interminabile e di grande finezza, che ricordano il dattero, la prugna secca, il fieno tagliato, l’umidità del sottobosco, un fiore giallo… e in bocca si ritrovano simili suggestioni accanto a quelle fruttate, ma ammantate di freschezza dissetante: alla cieca era anch’esso risultato uno dei miei preferiti. L’esemplare che avrebbe dovuto restituirci maggior peso specifico, dovuto alla lunghissima macerazione di dieci mesi, il “Colle Fregiara” 2017 di Annesanti, è risultato il vino più sulle punte, il più sottile della batteria, quello con maggior freschezza e note agrumate, sicuramente connessa al territorio di provenienza: la Valnerina dai rigidi inverni e dalle estati fresche. A tal proposito occorre segnalare, come ha fatto Antonio Boco, che tra le tante virtù il Trebbiano Spoletino condivide con il Pecorino la capacità di adattarsi alle alte altitudini. I contadini della zona di Sellano, nella montagna tra Colfiorito e Valnerina, narrano che un tempo anche lì c’erano molte viti di Trebbiano, oggi scomparse. IMG_6522
Tornando ai macerati proposti da Giampiero Pulcini arriviamo ad una novità, non ancora in commercio, il “P” della piccola e neonata azienda Kurtz, di Marco Duranti: il Trebbiano Spoletino “P” proviene da vecchie vigne situate a Fontignano, lungo la strada statale Pievaiola che collega Perugia a Città della Pieve, non lontano dal Lago Trasimeno e dalla Toscana, dunque decisamente fuori zona rispetto alla piana spoletino-trevana (il Trebbiano, da vitigno adattabile a svariati contesti e modalità di vinificazione, si è ovviamente diffuso ovunque in regione). Bel colore ambrato, il “P”, con freschezza a iosa, ma tanta polpa e dinamismo: ottimo inizio per Kurtz.
Immancabile il “Terra dei Preti” 2018 di Collecapretta, un orange che sa proprio di scorza di arancia e che al primo impatto richiama suggestioni brassicole, come di una Lambic fresco-acidula, ideale per l’estate: da tenere d’occhio tra qualche anno. Per finire in bellezza, la batteria di Giampiero Pulcini sfoggia l “Arboreus” 2012 di Paolo Bea che dopo una macerazione di ventitré giorni, riposa sulle fecce fini; “Arboreus” proviene interamente da vigne alberate e dopo sette  anni dalla vendemmia ci ammalia con una complessità di sapori e profumi  all’insegna di una finezza estrema: ma sapevamo già.

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A “De Gusto, Trebbiano & Food Festival” non poteva mancare un focus sulla spumantizzazione del Trebbiano Spoletino la cui acidità, che non viene meno nemmeno a maturazione tardiva, ne fa una materia prima privilegiata per questa versione. Davide Bonucci guida la carrellata di vini spumanti e frizzanti i cui assaggi hanno evidenziato la capacità del Trebbiano di raggiungere la qualità attraverso tutti i metodi di spumantizzazione, dallo Charmat lungo di Colle Uncinano, al metodo ancestrale del “Laetitia” di Fongoli, passando per “L’Edoardo”, l’ancestrale con sboccatura della Cantina Ninni, fino ai metodo classico praticati da Moretti Omero con il suo “N° 1” e dall’ex azienda Novelli di cui si è assaggiato un esemplare da dieci anni in bottiglia, miracolosamente reperito per l’occasione. Le mie preferenze vanno ai metodo ancestrale di Cantina Ninni e di Fongoli, che si diversificano per la fresca linearità del primo e la più scomposta, ma accattivante versione del secondo; un plauso al vigore, pur nella sua maturità, del metodo classico Novelli, denso di profumi e sapori di dolci lievitati; Novelli, azienda pioniera nello sperimentare e riscoprire vitigni in disuso, sfortunatamente per noi ha terminato la sua attività da qualche anno. Ancora acerbo, ma promettente, il metodo classico di Moretti Omero, trenta mesi sui lieviti, che paga forse la sboccatura troppo recente: da tornarci tra qualche tempo. Chiude la carrellata dell’effervescenza un’interessante versione brassicola da mosto di Trebbiano Spoletino, proposta da Birra Perugia: una specie di Lambic molto gustosa e fresca.

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Nella sua degustazione Antonio Boco ha invece raccontato l’evoluzione del Trebbiano Spoletino dai primi anni di riscoperta, ormai una quindicina di anni fa, ad oggi. Il vitigno riporta ad un passato contadino che non esiste quasi più, ma che reca ancora tracce nelle alberate sopravvissute. Sono pochissime le aziende che non hanno mai abbandonato il vitigno e la tradizione ad esso legata: la maggioranza è tornata al Trebbiano Spoletino “codificando una grammatica nuova per un vitigno antico, pur restando legate ad un’idea identitaria e territoriale”. Oggi, infatti, si sta assistendo a quella che Boco definisce la fase 2.0, più articolata, con vini più complessi e ambiziosi, risultato di sperimentazioni e interpretazioni svariate a cui il vitigno sembra sempre adattarsi in virtù della già descritta plasticità che lo caratterizza.
Così si possono assaggiare esemplari affinati sulle fecce fini, come il “Del Posto” 2017 della Cantina Perticaia, che fa anche macerazione e lo Spoleto Doc della Cantina Pardi, ancora 2017, senza macerazione: in entrambi si evidenziano le note agrumate tipiche delle annate più fresche e della vinificazione in riduzione, con spalla dolce-sapida sul finale che fanno sembrare il Trebbiano Spoletino un vitigno nordico. Nel secondo si avverte anche qualche accenno terziario che lo fa sembrare più evoluto del primo, pur essendo della stessa annata. Valdangius, azienda di Montefalco come le precedenti, propone un’altra interpretazione del Trebbiano Spoletino, questa volta attraverso un passaggio in legno piccolo che si percepisce all’assaggio del suo “Filius” 2017. Le Cimate, invece, ha optato per la botte grande di rovere di Slavonia, meno impattante.  Una combinazione delle precedenti intepretazioni è quella di Bellafonte e del suo “Arneto” 2016 a fermentazione spontanea in legno grande, macerazione a bassa temperatura e sette mesi sulle fecce fini: un vino che Boco definisce dai toni autunnali, con buon tenore alcolico che gli conferisce rotondità anche se non si perde il sottofondo di acidità tipica del vitigno. Il “Vigna Tonda” 2017 di Antonelli, da vigneto ancora giovane, quindi integrato con uve da vigneti più maturi, resta a contatto con le bucce per sei mesi, poi lasciato affinare in anfora di terracotta e ceramica: vino polposo, ma anche molto fresco, croccante e sapido.

Un accenno ad altri assaggi alla cieca che considero meritevoli:

Collecapretta, “Vigna Vecchia” 2018: fresco, leggero, ma non banale, succoso al centro bocca con chiusura verticale.
Antonelli, “Trebium” 2018: bocca succosa, densa di frutto  con richiami di ortica e té verde e finale fresco sapido.
Cantina Ninni, “Poggio del Vescovo” 2016 e 2018: il primo sfoggia al naso le tipiche note fumé, idrocarburiche, terragne e in bocca entra affilato, fresco, quasi come una birra acida; il secondo è più delicato e composto e più succoso al gusto.
Agricola San Sabino, Trebbiano Spoletino Doc Superiore, 2017, arancia amara, fieno appena tagliato, erba medica, nota caramellosa che poi si stempera in un allungo fresco.
Azienda Agricola De Conti, “Ruicciano” 2018, al naso si colgono note floreali delicate mentre in bocca si avverte un buon equilibrio tra succo e verticalità e leggere sensazioni sulfuree in fase retronasale.

Novità comunicate al convegno di apertura dell’evento trevano : il Consorzio di Tutela dei vini di Montefalco ha modificato lo Statuto per includere anche il territorio spoletino e dunque i suoi produttori che potranno avere voce in capitolo nelle scelte del Consorzio stesso. Bene.
Male, a mio insignificante parere, la proposta di togliere al vitigno la menzione Trebbiano per lasciare solo la dizione “Spoletino” in nome di una presunta cattiva fama dei Trebbiani, considerati vitigni capaci solo di dare vinelli neutri e impersonali. Tale pregiudizio è dovuto alla sovrapproduzione a cui tali vitigni sono stati costretti per anni insieme a metodi di vinificazione grossolani. Oggi che si riesce a valorizzare l’autoctonia di molti vitigni dimenticati, anche i Trebbiani, come lo Spoletino, riescono a recuperare dignità.
Trebbiano Toscano, Trebbiano Spoletino, Trebbiano di Modena, Trebbiano Romagnolo, Trebbiano d’Abruzzo, Trebbiano di Soave, che altro non è se non il talentuoso Verdicchio: sono vitigni diversi, ma uniti dalla comune appartenenza ad una tradizione agricola antica. Sarebbe un peccato eliminare dal vitigno umbro il richiamo alla tradizione contadina a cui sono indissolubilmente legati tutti i Trebbiani: dopo la scomparsa dell’alberata sarebbe giusto mantenere vive, almeno nel nome, le radici storiche del Trebbiano Spoletino.

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