La rivoluzione cirotana tra disidentità e “restanza”.

"[...] Non esiste una Calabria, ma tante Calabrie come, non a caso, si diceva in passato. La Calabria ossimoro, terra di contraddizioni e di ambivalenze, delle identità e delle disidentità, che soltanto uno sguardo superficiale presenta in maniera granitica. Terra bruciata dal sole e bagnata dalle piogge, di inverni rigidi e stagioni calde, degli ottocento chilometri di costa e del novanta percento del territorio montano e collinare, del radicamento e delle fughe, degli abbandoni e delle continue pazienti riparazioni, della limitatezza e dell’infinito, dell’adesso vengo e del non arrivo mai, della pietas profonda e delle violenze più cupe, degli amori e degli odi interminabili o effimeri, del planctus religioso e utopico, che interseca anche la denuncia sociale, e delle bestemmie più terribili. [...]" 
Vito Teti*, "La Calabria tra sottoterra e cielo - Le Luci e le ombre", estratto di una relazione dell'autore dal titolo "Il sentimento dei luoghi. Il sentimento degli altri" pubblicata su varie testate.

La Calabria è terra senza un’identità univoca, a meno di non riassumerla nelle sue contraddizioni. Non ha un’identità perché la Calabria, al di fuori della Calabria, non la si conosce e, come tutto ciò che non si conosce, esiste solo in un immaginario confuso, stereotipato e costruito tramite un sentito dire mai sperimentato, quindi fallace. Non ha un’identità perché le sue forze migliori se ne sono andate a costruire altrove la loro fortuna e quella dei luoghi che li hanno ospitati. Non ha un’identità perché ai piani alti ne hanno fatto mercimonio anziché impegnarsi per dar valore alle sue infinite potenzialità ed indicare una strada di crescita. Non ha un’identità perché nel dopoguerra le hanno promesso uno sviluppo industriale come emancipazione da un’economia agricola ritenuta indegna di un Paese sviluppato e alla fine le hanno sottratto l’unica ricchezza naturale, la terra, e lasciato ruderi di ciminiere, deturpazione di luoghi bellissimi per fare posto a opifici dismessi in pochi anni, a disoccupazione e disillusione.

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Punta Alice e sullo sfondo l’ex stabilimento di produzione del Cloruro, in corso di smantellamento.

Non ha un’identità perché “terra in perenne fuga e movimento per mille ragioni: per necessità, per scelta, per catastrofi naturali o catastrofi storiche di cui l’emigrazione è l’ultimo e più significativo momento”. (Ancora Vito Teti).

Non hanno un’identità i centri urbani della costa, quelli sorti nel dopoguerra, lungo le principali arterie stradali, senza alcun criterio urbanistico: sono tutti chiamati “Marina” di qualcosa, dove quel qualcosa racconta di case e campanili dei bellissimi paesi interni, abbandonati del tutto o in parte per rinascere in prossimità del mare. La toponomastica incarna la dicotomia tra uno sguardo che è ancora rivolto al passato e un futuro che non ha ancora una direttrice chiara verso cui dirigersi.

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Rocca di Neto, nell’entroterra
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Castello di Santa Severina

Questa “disidentità” sghemba, inestricabile, incomprensibile ad uno sguardo superficiale, nasconde una ricchezza infinita, pronta ad emergere in mano a demiurghi capaci e rispettosi: questa ricchezza le è stata donata da madre natura ed è racchiusa tra il cielo, la terra e il mare di Calabria. Insieme alle innumerevoli ricchezze storico artistiche.

Se le istituzioni, che dovrebbero indirizzare, programmare e supportare linee di sviluppo economico, in Calabria hanno fallito più che altrove, oggi le iniziative di singoli uomini e donne di grande volontà, rimasti in regione o rientrati dopo anni di autoesilio, stanno dando linfa ad una Calabria che fa impresa facendo leva sulle sue ricchezze.
Lo sta facendo, tra gli altri, l’ultima generazione dei vignaioli di Cirò, quella che ha restituito vigore ad uno dei territori vitivinicoli di più antica storia e vocazione. La Cirò Revolution è partita da uno spicchio di terra di Calabria, nel crotonese, e le ha restituito un’identità senza infingimenti o strategie, riconoscendo al vino di quei luoghi, non facile, ma unico, la dignità di gran vino.
Il sacrosanto orgoglio di proporre un vino che non dovesse per forza somigliare ad altri per essere appetibile, la volontà di rompere la “disidentità” del Cirò, per troppo tempo mascherato, tagliato, mortificato alla logica di un mercato che reclamava un vino modellato e costruito, sta dando a quel lembo di Calabria una visibilità nuova che, se inserita in un sistema virtuoso, non può che far bene a tutto il territorio e a chi lo vive.

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Panorama da Cirò Alta

I vigneti del cirotano, che dalla costa si arrampicano sulle colline dell’interno, fino alla Pre-Sila, che si adagiano su terreni dalla composizione estremamente eterogenea da vigneto a vigneto e persino nello stesso vigneto (dalle più antiche terre rosse alle argille riarse, con o senza calcare, dai terreni alluvionali a quelli più sabbiosi e limosi) che non soffrono l’umidità grazie al soffio asciugante del grecale, bagnati da abbondanti piogge in autunno e in inverno, assolati in estate, quei vigneti a filare, alcuni ad alberello, anch’essi disposti a filare, imprimono un ordine a quelle terre troppo spesso mortificate dall’incuria e dal disordine urbanistico: insieme agli ulivi secolari e agli agrumeti costituiscono un bellissimo scenario paesaggistico che dialoga con l’azzurro e pulitissimo mare Ionio.

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Vigneto e sullo sfondo i Mercati Saraceni, a Cirò Marina

Sono ancora pochi i terreni vitati se paragonati ad altri distretti vitivinicoli e in rapporto alla quantità di terre incolte del territorio cirotano; tanti sono i vigneti abbandonati a se stessi perché l’uva viene pagata poco ai conferitori delle poche grandi aziende o perché chi se ne dovrebbe occupare vive altrove. C’è spazio per una crescita, dunque, c’è la possibilità di allargare la schiera dei vignaioli rivoluzionari e innovatori di Cirò per dare ulteriore vigore al progetto di rinascita innescatosi dal coraggio di Francesco Maria De Franco, di ‘A Vita, e a ruota da Sergio Arcuri, Cataldo Calabretta e Mariangela Parrilla di Tenuta del Conte; a loro si sono poi affiancati Assunta Dell’Aquila, i fratelli Scilanga di Cote di Franze, Rocco Pirito dell’Azienda Romano, Francesco Fezzigna (Doc Melissa, al confine con Cirò) e altri che stanno muovendo i primi passi, come i ragazzi Gianni, Michele e Nicola della giovane azienda Menat, ridiscesi da Milano per far vitivinicoltura tra i boschi della Pre-Sila vinificando in anfore georgiane interrate.

Al centro della svolta virtuosa di tutti loro c’è stata la volontà di scommettere sul gaglioppo in purezza per i vini rossi e rosati, reagendo alla modifica del disciplinare della Doc che offre la possibilità di aggiungere vitigni non autoctoni. Il gaglioppo è il solo vitigno capace di adattarsi al clima e ai caratteri del territorio cirotano, ma ha un profilo polifenolico che richiede uve in maturazione ottimale e mani sapienti per gestirlo giacché è generoso di tannino, ricco di antociani ossidabili e povero di coloranti. A ciò si affianca una buona dotazione in acidità tanto che un tempo lo si tagliava con il greco bianco per smorzare almeno i tannini e ridurre le durezze. Oggi si ricorre a macerazioni non troppo lunghe e a combinazioni di uve da vigneti diversi per evitare eccessi di alcuni caratteri su altri. Il gaglioppo, tuttavia, sa sorprendere: se la potenza tannica induce a pensare a vini abbordabili solo dopo invecchiamento, ci sono Cirò giovani che riescono ad essere estremamente godibili grazie a sensazioni fruttate, calde e mediterranee che stemperano l’irruenza tannica. Il gaglioppo evolve velocemente nel colore, per via degli antociani ossidabili, e sviluppa in poco tempo note odorose terziarie che fanno pensare ad un passaggio in legno anche se non c’è stato.

Ma il vino quotidiano dei cirotani era ed è il rosato da gaglioppo ed è anche sul rosato che i vignaioli cirotani scommettono, ora che tale tipologia sembra godere di maggiore attenzione. Al rosato di Cirò non si addice una veste provenzale, tenue nella tonalità di colore e magro nella sostanza; senza arrivare ad eccessi di macerazione, come da tradizione locale, pensiamo alla cucina calabrese, di impronta piccante e non certo priva di grassi, per capire che un vino rosato di territorio non può essere totalmente privo di struttura: ci pensa la sapidità a dare slancio e verticalità ai Cirò rosati.
Non è, il gaglioppo, straordinariamente affine ai caratteri della Calabria, o meglio, delle Calabrie? Vitigno di pioggia e di sole, di pianura e di collina, di terra e di mare, da bere giovane e apprezzare evoluto, rosso o rosato, ambivalente e contraddittorio, senza un’apparente identità se non ci si sforza di capirlo, sicuramente unico.

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Vigneto di Tenuta del Conte alla fiumara

C’è ancora qualche sforzo da compiere perché la rinascita vitivinicola cirotana funzioni da richiamo turistico e questo sforzo chiede il contributo delle istituzioni locali che hanno per le mani un patrimonio artistico, archeologico e paesaggistico senza uguali. Qualcosa si muove anche sul fronte della ricettività e ristorazione in una Cirò ancora manchevole di un’enoteca di riferimento per tutti i vini del territorio: da poco un giovane cuoco diplomato Alma, Giuseppe Pucci, ricco di esperienze maturate in giro per il mondo, ha deciso di tornare in patria per aprire un localino a Cirò Marina; il locale si chiama “A Casalura” e propone sia cibo da asporto che da consumare sul posto, affiancato da un’ottima selezione di vini locali. “A Casalura” è una combinazione tra la maestria di un vero chef, sapori raffinati, qualità della materia prima e prezzi modici.

Può non essere comodissimo arrivare a Cirò percorrendo la strada statale ionica 106 a due corsie, ma un viaggiatore attento non deve aver fretta e la lentezza del percorso è ampiamente ripagata dalla bellezza del paesaggio costiero che si scorge tra un abitato e l’altro; gli abitati lungo strada, le famose “marine di”, brulicanti di traffico e vita sono il contrappunto perfetto ai chilometri di costa il cui unico segno di antropizzazione è quello dalla ferrovia ionica, ulteriore ossimoro calabrese tra pieno e vuoto, caotico e rasserenante, una cosa e il suo contrario.

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Lungo costa e ferrovia ionica

La rivoluzione cirotana ha una valore antropologico e culturale che va oltre la rinascita del vino di Cirò e oltre il risveglio della vitivinicoltura calabrese che, sulla scia del successo del cirotano, sta muovendo anch’essa i primi passi. La Cirò Revolution ha aperto un’era virtuosa e propulsiva nella storia travagliata della Calabria, quella della “restanza”, altro vocabolo visionario e anch’esso rivoluzionario di Vito Teti, interprete lucido della Calabria e dei Calabresi. La “restanza”, crasi tra le parole restare e resistenza, è “la posizione di chi decide di restare, rinunciando a recidere il legame con la propria terra e comunità d’origine non per rassegnazione, ma con un atteggiamento propositivo”. È la “capacità di reinventare un luogo, di trovare per esso un nuovo scopo, una nuova funzione e fruizione, una nuova ragione di esistere”. Significa “raccogliere i cocci, ricomporli, ricostruire con materiali antichi, tornare sui propri passi per ritrovare la strada, vedere quanto è ancora vivo quello che abbiamo creduto morto e quanto sia essenziale quello che è stato scartato dalla modernità.”

La Calabria è complessa e complicata, ma una volta capita non si può non amarla e chi ama la Calabria non può che dire grazie ai rivoluzionari di Cirò.


*Vito Teti è professore ordinario di Antropologia culturale presso l’Università della Calabria, dove ha fondato e dirige il Centro di iniziative e ricerche “Antropologie e Letterature del Mediterraneo”.

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