L’Italia del vino ha raggiunto solo in tempi relativamente recenti un livello qualitativo universalmente riconosciuto. Basti pensare che le prime Doc sono apparse a partire dagli anni ’60 del novecento e da lì in poi c’è voluto un ventennio circa per conquistare l’apprezzamento dei pochi enoappassionati del tempo. Alcune regioni sono riuscite molto tardi a trovare notorietà attraverso il vino, per tare secolari che sono state eliminate con difficoltà: tra queste regioni c’è l’Umbria.
Se è noto che il vino si è sempre fatto e bevuto in tutti i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, solo ad intuito possiamo affermare che il vino dei Greci, almeno all’epoca dei loro viaggi in cerca di nuove terre da colonizzare, doveva essere il più appetibile: lo intuiamo non solo perché anfore e vasi potori in ceramica greca hanno invaso tutto il Mediterraneo dall’VIII sec. a.C. in poi, ma perché la parola vino, in latino vinum, in etrusco vinun e variante voinos, derivano tutte direttamente dal greco oinos. Ciò non vuol dire che prima dell’arrivo dei Greci nella nostra penisola non si facesse vino (forme vascolari etrusche, destinate al vino, precedenti all’arrivo dei Greci in Italia dimostrano il contrario e in Sardegna, tracce archeologiche dimostrano che il vino si faceva anche prima che lo introducessero i Fenici) ma significa che il vino greco e soprattutto il valore che i Greci davano ad esso venne assunto come modello in ambito prima etrusco-italico, poi romano. Il simposio ne è la testimonianza principe: rito conviviale incentrato sul vino, ampiamente documentato nelle pitture parietali di molte tombe etrusche, è una delle eredità del life-style greco lasciate al mondo etrusco e romano.
Su un aspetto i Greci entrati in contatto commerciale con gli Etruschi e gli Italici del Centro Italia non riuscirono a rappresentare un modello: sulla forma di allevamento della vite. Presso i Greci e nel resto del Mediterraneo era in uso quella ad alberello o a vite bassa a sostegno morto, più adatta a terreni e a climi secchi, introdotta nell’Italia Meridionale attraverso le colonie magno greche.
Il sistema etrusco romano, invece, era quello della vite maritata all’albero che caratterizzerà per secoli il paesaggio agrario dell’Italia Centrale e dell’Umbria e che verrà chiamato in vari modi a seconda delle sue varianti: alberata, piantata, a festoni, a pergola. Columella (I sec. d. C.) scrisse nel suo De re rustica che la pratica di “sposare” la vite all’albero asseconda il comportamento naturale della vite selvatica che si arrampica spontaneamente sulle essenze arboree adiacenti.
L’Umbria pre-romana a destra del Tevere era territorio degli Etruschi mentre l’altro versante era sede di popolazioni Umbro Sabelliche. Gli Etruschi, come detto, avevano rapporti con i Greci e con i loro manufatti. Orvieto, in particolare, Velz-na (poi Volsinii), la più antica e florida città etrusca, il cui nome sembra proprio richiamare etimologicamente la parola vino, era sede del santuario federale etrusco che richiamava uomini e merci dall’Etruria e dalla Grecia medesima. Questa finestra aperta sulla grecità ha consentito all’antica Orvieto di discostarsi dal resto dell’Etruria e dell’Italia Centro Settentrionale del tempo, proprio per quel che riguarda la viticoltura: gli Etruschi di Velz-na/Volsinii, infatti, adottarono il sistema a vite bassa dei Greci. Fu l’origine della loro fortuna in campo vitivinicolo, fortuna tramandatasi fino ai nostri giorni. Dall’età antica in poi, mentre l’Umbria vinicola sonnecchiava o dava pessima prova di abilità, Orvieto si è sempre distinta come terra di vini di pregio, richiesti dalle corti signorili e, in primis, da quella pontificia. Vini bianchi crudi (perché per secoli il vino era fatto con mosto cotto, per ovviare all’inconsistenza della maggior parte delle uve, vendemmiate troppo presto per timore di perdere il raccolto e per farlo conservare di più) ma anche rossi.
Al Sud, come detto, il sistema dell’alberata era sconosciuto ad eccezione dell’“arbusto aversano” introdotto proprio nell’enclave etrusco presente sin dalle origini a ridosso di Cuma: lì la vite era ed è tutt’ora maritata a pioppi alti anche 20 metri!
Ma perché l’alberata ha rappresentato un limite alla produzione di un vino di qualità?
E perché è stato così difficile e tardivo l’abbandono di questo sistema di allevamento nell’Italia Centrale e nell’Umbria in particolare?
La vite maritata all’albero implicava una crescita a dismisura della vite medesima che si attorcigliava ai rami dell’albero (inizialmente l’Olmo, poi l’Acero campestre, il Pioppo e alberi da frutta): l’obbiettivo era quello di far germogliare il più possibile la vite per avere un raccolto generoso. Il concetto rimase a lungo quello di avere più quantità possibile di uva senza capire che la quantità andava a scapito della qualità. Inoltre l’alberata ben si adattava a terreni di pianura (l’agricoltura era praticata preferibilmente laddove era più comodo laovrare i terreni) a valli fliviali e a terreni alluvionali e paludosi, assai diffusi prima dell’epoca delle bonifiche.
Ma c’era anche un altro motivo pratico: con l’alberata potevano convivere diverse colture. Oltre all’albero e alla vite si poteva piantare anche seminativo o consentire il pascolo nel medesimo terreno. E’ per questo che il sistema mezzadrile che caratterizzerà l’Italia agricola fino alla metà del ‘900 ed oltre, fondato sulla coltura promiscua di autosussistenza (bisognosa di diversificare la produzione al suo interno) manterrà inalterato il modello della vite maritata all’albero. A discapito, ovviamente, di un’agricoltura e vitivinicoltura di qualità.
Apro una parentesi: ci si chiederà come mai il Sud, nonstante l’assenza dell’alberata e la diffusione delle viti basse, abbia tardato ancor più del resto d’Italia il suo sviluppo vitivinicolo. La risposta è semplice: lì il latifondo, cioè estesi appezzamenti di terreno di prorietà nobiliare o del clero, gravato da rapporti di tipo ancora feudale, immobilizzò ancora per molto l’intero settore agricolo. Unico segnale in controtendenza, dopo l’unificazione, fu il dissodamento delle terre da pascolo del tavoliere delle Puglie per far posto alla viticoltura; una viticoltura non orientata all’imbottigliamento, come sappiamo, bensì alla vendita di vino da taglio destinato al Nord d’Italia e alla Francia.
Chiudo parentesi.
L’Umbria, dall’antichità al ‘900 inoltrato, era disseminata di alberi vitati, da Nord a Sud. La vite maritata caratterizzava il paesaggio anche in zone della regione attualmente scarsamente vitate, come i dintorni del capoluogo, in specie quelli a Nord, a ridosso del corso del Tevere (la zone dei Ponti, per intenderci). Ma anche il folignate, il ternano e lo spoletino a ridosso delle città. Norcia, invece, ai piedi della montagna, aveva alcuni filari di viti basse, probabilmente grazie alla maestria dei Benedettini che dopo il mille intensificarono l’impianto di viti nei terreni entrati in possesso dall’ordine, sia in Italia che nell’Europa cristianizzata.
L’alberata non consentiva alla vite di arrivare a piena maturazione a causa delle foglie degli alberi che coprivano i grappoli; i terreni, pieni di piante e arbusti, si riempivano di radici che snaturavano il suolo.
La mezzadria, con il vigente patto stipulato per legge tra propietario e famigia mezzadrile, ostacolava, di fatto, qualunque evoluzione dell’agricoltura del Centro Italia verso il mercato: al padrone andava parte del raccolto, il resto andava al mezzadro e alla sua famiglia per garantirgli la sopravvivenza. Il mezzadro tendeva a lavorare il minimo indispensabile per ottenere quanto a lui serviva, il padrone tendeva a risparmiare e a non investire nulla per incrementare o migliorare la pratica agricola. In questa gara al risparmio, il progresso agricolo restava una chimera. Il vino era preparato dai contadini o dai proprietari per il consumo famigliare e non era certo adatto ad oltrepassare i confini di un mercato locale.
In Toscana, per restare in centro Italia e nel mondo mezzadrile, qualche ricco proprietario terriero illuminato e attratto dalle opportunità di un mercato agricolo in crescita grazie all’aumento della popolazione, dopo l’unificazione avviò dei progetti di modernizzazione agraria proprio in campo vitivinicolo (i nomi sono ben noti: Antinori, Ricasoli…) aprendo la strada ad una vitivinicoltura di eccellenza; in Umbria, invece, furono pochi e senza ricadute i tentativi di modernizzare la vitivinicoltura nel corso dell’800.
Ricordiamo il Conte Zeffirino Faina, nelle sue proprietà di Collelungo di Marsciano, che fece impiantare in collina viti basse a sostegno morto dopo aver appreso in Francia tale pratica virtuosa. Non solo, fece realizzare anche una cantina modello con torchi fissi fatti venire dalla Francia ed altre novità tecnologiche.
La cantina Conti Faina è ancora oggi una realtà vitivinicola regionale.
Michelangelo Bonelli, ingegnere di origine piemontese, nel 1894 assunse la direzione dell’azienda di San Valentino di Marsciano animato da interesse per le nuove pratiche agricole, fra cui l’utilizzo dei concimi chimici e la costruzione di canali per l’irrigazione. Egli introdusse, oltre al Sangiovese e al Trebbiano, vitigni settentrionali come il Malbech e il Dolcetto per le uve a bacca nera e Sauvignon e Riesling per quelle a bacca bianca. Fu molto attento all’impianto dei nuovi vigneti a conduzione specializzata.
A Montefalco, l’avvocato spoletino Francesco Antonelli acquistò la tenuta di San Marco con 4 ettari di vigna a spalliera oltre a quelle maritate all’acero. “Le viti in coltura specializzata costituivano la più importante innovazione portata all’azienda”. Si cercò di non sistemare un numero troppo elevato di piante per garantire loro luce e alimento, requisito fondamentale per renderle forti e resistenti all’attacco di malattie.
Negli anni ’80 dell’ottocento, il principe romano Ugo Boncompagni Ludovisi acquistò un podere in località Scacciadiavoli di Montefalco dove creò un’azienda vitivinicola e una cantina ad imitazione di quelle transalpine: una vera innovazione per l’Umbria del tempo, tutt’ora in uso nell’azienda Scacciadiavoli. Il vino della proprietà Boncompagni veniva venduto nelle principali città italiane e anche all’estero.
Queste le poche innovazioni dell’Umbria vitivinicola ottocentesca, frutto del desiderio di qualche proprietario terriero di imparare a far vini di qualità appetibili anche fuori dell’Umbria. Il modello virtuoso che si aveva allora davanti era quello del Piemonte e della Toscana e si tentò di imitare la vocazione rossista di quelle regioni importando in Umbria vitigni piemontesi e iniziando a fabbricare vini alla maniera toscana, “tipo Chianti”. Fu grazie a questa spinta che si avviarono le prime vinificazioni aperimentali di Sagrantino secco.
Ma gli innovatori rimasero esempi virtuosi a sè stanti, incapaci di trainare il comparto vitivinicolo regionale. Restava la convinzione che, al di fuori di Orvieto, in Umbria non fosse possibile produrre buon vino. Ma soprattuto, dentro le maglie rigide del sistema mezzadrile non era facile portare avanti progetti di innovazione in agricoltura e in viticoltura. Scarseggiavano anche le conoscenze sulle nuove tecniche agricole e di vinificazione e né i proprietari terrieri né i contadini avevano interesse a colmarle, o meglio, anche quando si diffusero le cattedre argicole ambulanti, aperte a chi poteva dimostrare esperienza lavorativa nel settore agricolo, ci fu l’ostracismo dei proprietari a che i contadini le frequentassero per timore che una loro istruzione e presa di coscienza scardinasse l’equilibrio del patto mezzadrile. I proprietari terrieri, d’altra parte, non avevano tempo da perdere per istruirsi su una materia, l’agricoltura, che non era la loro attività principale, ma solo una fonte secondaria di reddito.
Qualcosa cominciò a cambiare quando le prime inchieste agrarie condotte dopo l’unificazione misero in luce le carenze e le debolezze dell’agricoltura italiana del tempo. Sull’Umbria, l’esito dell’inchiesta Jacini del 1884 fu implacabile:
“La più trascurata delle coltivazioni nell’Umbria è quella delle viti. Il sistema seguito fin qui in tutta la provincia è quello della pergola ossia le viti appoggiate ad alberi disposti in filari paralleli nei campi destinati alla produzione del grano salvo però i vigneti bassi di Norcia e di Orvieto nei quai le viti sono disposte a filari con sostegno morto e con canne al sistema romano. La coltivazione della vite più maltrattata è quella del territorio di Perugia, di Rieti (all’epoca appartenente all’Umbria) e di Terni; mediocre è quella del territorio eugubino”
Le novità in campo agronomico e vitivinicolo iniziarono a diffondersi anche grazie alle esposizioni nazionali e internazionali, occasione di scambio e confronto tra produttori, oltre che di stimolo a ben figurare con i propri vini.
Le cooperative di viticoltori rappresentarono, per l’Umbria, un’altra importante novità: furono l’espediente per razionalizzare le spese abbattendo i costi di cantina e, soprattutto, per affidare la vinificazione a pesonale esperto. Tutt’ora sopravvivono in Umbria le cantine sociali di fine ‘800, inizi ‘900, testimoni dei primi sforzi compiuti in regione per migliorare il livello qualitativo dei vini: Cantina Sociale del Trasimeno, oggi Duca della Corgna, Cantina dei Colli Tuderti, oggi Tudernum, Cantina Sociale di Marsciano, oggi Sasso dei Lupi, Cantina Sociale di Bettona, oggi Cooperativa Perusia, cantina Sociale dei Colli Spoletini, oggi Spoleto Ducale.
Sebbene il sistema delle vite maritata rimanesse quello prevalente, la coltura specializzata cominciava a guadagnare posizioni nell’Umbria degli inizi del ‘900.
Di pari passo iniziava a diffondersi l’uso di anticrittogamici e concimi chimici sebbene inizialmente, anche a fronte dei costi, non fu facile convincere contadini e proprietari ad utilizzarli. Un canale efficace per la diffusione di informazioni su questi prodotti erano gli almanacchi popolari, il più famoso dei quali era proprio “Barbanera” di Foligno. Gli almanacchi riportavano informazioni pratiche e utili (sui santi del giorno, i mercati, le unità di misura, le monete ecc..) nonché curiosità e aneddoti legati all’agricoltura; si trattava di un prodotto editoriale rivolto ai ceti popolari, ma con funzione formativa. Tra ‘800 e ‘900 gli almanacchi, oltre a fornire consigli per avere buoni raccolti rispettando le fasi lunari, le stagioni ecc., diventarono canale di promozione sull’uso della tecnica, in primo luogo dei concimi chimici.
Solo di fronte all’aumento del raccolto si ruppe la diffidenza del mondo contadino…ed iniziò così quell’uso massiccio di prodotti di sintesi che a lungo ha giovato alla produzione, ma non alla terra!
A nulla servirono gli anticrittogamici contro l’epidemia della fillossera che colpì la viticoltura del veccchio continente agli inizi del ‘900. La fillossera è un insetto che aggredisce le radici della vite, quindi agisce nel sottosuolo e quando gli effetti del suo operato si palesano in superficie e sulla pianta, non c’è più rimedio. In realtà non esiste un rimedio chimico o naturale per sconfiggere o prevenire la fillossera: l’unica soluzione si scoprì essere l’innesto di nuove viti su piede di vite americana, immune geneticamente alla fillossera.
Il paradosso umbro fu che i danni da fillossera sul patrimonio vitato regionale furono assai contenuti e ciò proprio grazie all’alberata. Il notevole sviluppo dell’apparato radicale delle viti maritate agli alberi fu una difesa naturale contro l’attacco dell’insetto malefico che prediligeva radici giovani; non solo, anche quando una pianta ne fosse stata colpita, la distanza tra le viti maritate limitava il contagio e la propagazione. L’arretratezza della viticoltura umbra consentì ad essa di resistere all’epidemia fillosserica, aggiungerei…purtroppo! Gli unici danni da fillossera in Umbria si riscontrarono là dove la densità vitata era più elevata, ovvero a Gubbio, Perugia, Valfabbrica e a Montefranco (Terni): qui si procedette all’abbattimento delle viti che non vennero più impiantate.
I pochi passi avanti compiuti dalla vitivinicoltura umbra e non solo si arrestarono di fronte alla politica economica del regime fascista. La battaglia del grano e il regime autarchico dettero la precedenza ad altre colture e immobilizzarono le iniziative di chi puntava a produrre vino per sbocchi commerciali. Ma ci furono anche in quel periodo un paio di novità di rilievo: nel 1931 fu delimitato geograficamente il territorio di origine del vino tipico “Orvieto” sulla spinta di quanto stava avvenendo in Spagna e soprattuto in Francia; alla fine degli anni ’30 il Marchese Niccolò Antinori, proprietario dell’importante casa vinicola fiorentina, acquistò il Castello della Sala di Orvieto per ampliare la propria offerta vinicola anche nel settore dei vini bianchi. La fama e la qualità dei vini orvietani si era mantenuta intatta sin dalle sue origini.
Solo nella seconda metà del ‘900 il paesaggio umbro di pianura disseminato di alberate verrà rimpiazzato dai vigneti specializzati, sistemati sui pendii e disposti in perfette forme geometriche. Rarissimi, oggi, in Umbria sono i residui dell’antico sistema vitato, circoscritti a qualche pergola su tutori vivi presente ancora a ridosso di quache abitazione o alberi inseriti tra le viti in zone ormai periferiche rispetto a quelle destinate all’odierna vitivinicoltura di qualità.
Considerando i ritardi e le carenze con cui l’Umbria vitivinicola è arrivata al dopoguerra, appare enorme e rapido il progresso da essa compiuto negli ultimi anni. Il paesaggio agrario umbro è ormai associato a quello vitato oltre che agli ulivi. L’enoturismo umbro, insieme a quello d’arte è ormai perno di un’economia locale virtuosa.
Il vino umbro riesce a godere di rinomanza all’estero grazie alla storica produzione orvietana a cui negli ultimi due decenni del ‘900 si è affiancata quella di Montefalco con il pregiato e autoctono Sagrantino. Ma altre realtà si stanno imponendo all’attenzione degli enoappassionati, in uno scenario cangiante e variegato.
Nella zona del Lago Trasimeno si stanno compiendo sforzi importanti per l’affermazione dei vini di quel territorio, pur restando ancora incerta la strada da seguire, cioè quella incentrata sul brand vitivinicolo legato al lago o quella della valorizzazione del vitigno autoctono Gamay : il potenziale comunque c’è.
Il perugino della zona Nord, a ridosso del Tevere, territorio anticamente assai vitato, sta iniziando a muovere i suoi primi passi.
L’amerino si sta affermando con un vitigno da poco rivalutato: il Ciliegiolo.
Torgiano attende un ritorno, stavolta corale, ai suoi antichi fasti dopo l’affermazione pionieristica dei vini del modernizzatore Giorgio Lungarotti negli anni ’60. Qualcosa si muove.
La zona di Pitrafitta e Piegaro, tra Lago Trasimeno, Toscana e Orvietano mostra qualche potenziale ancora tutto da scoprire e valorizzare.
L’Alta e la Bassa Valle del Tevere hanno molte realtà vitivinicole interessanti.
Di Montefalco e Orvieto inutile dire anche se un cambio di strategie va attuato per far fronte alla crisi in atto.
Le zone pedemontane intorno a Norcia, oggi martoriate dal terremoto, un tempo erano vitate: chissà che non si possa ritentare un nuovo percorso vitivinicolo anche in prospettiva di una rinascita post sisma.
La storia vitinivicola dell’Umbria è ancora giovane e in un contesto in cui i mercati e i gusti sono in continua evoluzione questo non può che essere un elemento premiante. Ma in primo luogo sarà la fedeltà al proprio destino territoriale, alla propria vocazione, senza assecondare mode o richieste di nuovi mercati danarosi, a portare risultati e visibilità all’Umbria come terra di vino.
La butto lì: se si provasse a seguire la strada di un’enologia umbra da promuovere nel suo insieme anziché concentrarsi solo su singole zone?
APPENDICE
Questo contributo deve quasi tutto al volume pubblicato nel 2012 dalla Volumnia Editrice dal titolo “Storia regionale della vite e del vino in Italia. L’Umbria”, di Manuel Vaquero Piñero, curata dall’Accademia Italiana della Vite e del Vino. Un volume di 440 pagine, ricchissimo di dati e informazioni che ho, ovviamente, tralasciato per non esondare più di quanto ho fatto, ma che sono preziosissime e interessantissime. Consiglio vivamente la sua lettura a chi vuole conoscere più a fondo la storia della vitivinicoltura umbra. Anche per le immagini sono debitrice del volume.
Ho consultato anche il contributo di Giacomina Nenci (mia prof ai tempi dell’Università) dal titolo “Proprietari e contadini nell’Umbria mezzadrile” in “Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. L’Umbria”, Giulio Einaudi Editore, Torino 1989. Inoltre, “Vino. Tra mito e cultura”, a cura di M.G. Marchetti Lungarotti e M. Torelli, Skira editore, Milano 2006.
Qualcosa è frutto di mie conoscenze pregresse e di considerazioni personali…forse le parti meno pregnanti di questo scritto.
Ringrazio chi ha avuto la pazienza e la bontà di leggere fin qui…
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