Sto andando verso una direzione imprevista, mi sto destrutturando, sto uccidendo la sommelier che sono e che forse non ho mai amato gran che. Ma l’evoluzione o la deriva, a seconda dei punti di vista, non si comanda; lei si prende lo spazio senza che tu te ne accorga e finisci per diventare o per fare ciò che non credevi.
Premessa: da qualche settimana sto partecipando ad un laboratorio di musica d’insieme in cui si suona musica popolare del Sud (fighissimo). C’è solo una regola inderogabile: ad ogni incontro, a turno, si porta una bottiglia di vino. E il giorno del laboratorio, sulla chat del gruppo una domanda è ineludibile: chi porta il vino?
Lanciare simili proposte a chi si sente esperta in materia è come invitare un Border Collie a rincorrere una palla: si butta a rotta di collo. Poi, però, l’ego ipertrofico della sommelier si ricompone e accetta di volare basso. Altri portano vini fatti in casa in bottiglie senza etichetta e pure io decido di uniformarmi e portare uno sfuso, quello di Marco Merli, una garanzia. Tutti lo conoscono (ma cosa credevo? di stupire con effetti speciali?). Anche i bicchieri seguono la regola dell’understatement: viene respinta la mia offerta di portare calici per tutti e ciascuno porta il suo bicchiere di plastica o di ceramica.
Il primo esemplare di vino proposto non sono riuscita a berlo, sia per l’assenza di qualità gustativa che per il fatto che non fosse stata dichiarata la paternità o maternità: non bevo vino di cui non conosco l’origine e sarebbe il caso che non lo facesse mai nessuno. Mangereste qualcosa portato da qualcuno che non vi dice chi lo ha cucinato? A maggior ragione se cattivo…
L’ultima volta il vino lo ha portato Roberto, il violinista e poli-strumentista, eclettico esecutore di musica di tutte le tradizioni popolari, ragazzo di poche parole, molto umile, ma un comunicatore eccelso attraverso la musica. Roberto porta una bottiglia uscita dalla cantina di casa di suo padre. Il vino è un Merlot proveniente da Amelia, provincia di Terni (Umbria), per l’esattezza dalle colline che guardano verso Todi. Il produttore è lo stesso papà di Roberto, un pensionato della pubblica amministrazione che ha ripreso a fare vino per uso famigliare.
Mi ci avvicino con la solita spocchia pensando a quale scusa inventarmi per non essere costretta a berlo. Mi aspetto una marmellata di prugne come solo un Merlot sa esprimere, con acidità volatile da svenimento.
Il naso non registra alcuna distorsione e la semplicità la fa da padrona: dal mio bicchiere di plastica riciclabile blu, il profumo discreto a gradevolissimo dei frutti rosso scuri arriva forte e chiaro. È un Merlot, mi dico: cosa mi aspetto se non le note di ciliegia matura, mirtillo, ribes nero e un po’ di fiore viola? Ancora scettica mi approccio al sorso. Ma basta poco per sdoganare lo stupore e riconoscere un vino di schietta onestà, dove domina il frutto, sì, ma enormemente misurato. Nella quasi assenza di tannino ci ha pensato un pizzico di acidità e di toni erbacei a donare equilibrio al sorso. Touchée.
Mentre sento suonare a morto, per me, le campane della sommellerie, ragiono sulla quantità di preoncetti, non solo miei, sui vini “contadini” e sul Merlot. Realizzo per la prima volta l’ovvio: il Merlot è arrivato dalla Francia in Italia e nel resto del mondo perché oltre alla sua adattabilità ha dalla sua la facilità con cui riesce a dare vini senza asperità, per non dire morbidi, pronti a soddisfare palati non esigenti o inesperti. E i contadini avranno trovato la quadratura del cerchio vinificando merlot. Questa peculiarità del vitigno è il suo pregio e limite. Il mondo è pieno di Merlot in cui è spinta ai massimi la sua naturale propensione alla rotondità del sorso e alla morbidezza senza bilanciamento.
Il povero Merlot è vittima di questa sua inclinazione, ma nella sua terra di elezione, il Pomerol come pure in altre poche zone, ma soprattuto sotto mani esperte, sa tirar fuori potenziali poco sfruttati.
Ci sono in giro troppi vini da merlot omologati.
È facile fare un vino “piacione” con il merlot, difficile farne un vino cesellato e in punta.
Nel corso della serata mi concedo volentieri altri sorsi del Merlot dell’amerino. Non è un vino fatto col cesello, ma è un vino che non vuole piacere a tutti i costi ed è
sapientemente onesto. Fossero tutti così i vini sfusi delle aziende che commercializzano vino, ma anche molti vini imbottigliati. Mi chiedo se il papà di Roberto abbia usato qualche scorciatoia per vinificare e provo ad abbozzare la domanda a Roberto, ma mi pento subito: lui sorride ricordandomi che è il vino che il padre beve tutti i giorni. La prossima volta gli farò una domanda più sensata, gli chiederò se anche il padre ha talento per la musica come lui: perché per fare un vino così, senza essere vignaioli di professione, ci vuole molto orecchio.
La mia deriva è compiuta, sono arrivata a fare quel che non avrei mai pensato: ho scritto un articolo su un “vino contadino” che mi è piaciuto assai. Mentre sento ancora suonare le campane a morto della sommellerie, sogno di aprire un’osteria in cui proporre solo “vini contadini”.
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