Quel vitigno delle zone terremotate…

Arquata del Tronto, Pescara del Tronto, Accumuli, Amatrice (situate lungo la via Salaria e inglobate tra il Parco Naturale dei Monti Sibillini e quello del Gran Sasso e Monti della Laga); e, scavalcando i Sibillini, direzione Umbria, Castelluccio di Norcia e Norcia stessa. Sono i luoghi dell’ultimo, ferale, terremoto: abitati decapitati dalla forza della natura che dà e toglie a suo piacere. Piccoli centri di montagna e alta collina, avviati da anni verso uno spopolamento coatto in direzione delle città, ma mai dimenticati da coloro che hanno avuto radici proprio lì, pronti a tornare, ogni estate, a vivificare strade ed edifici di quei luoghi. Ho anch’io un legame parentale e fisico con uno di quei centri perché mio padre era originario di una piccola frazione di Arquata del Tronto, provincia di Ascoli Piceno e lì c’è ancora la casa che lui si era costruito dopo decenni di lontananza da quel Paese: Pretare, a 5 chilometri da Arquata del Tronto, una delle innumerevoli frazioni sconosciute alle carte geografiche.
Conosco quelle zone, pur avendole sempre frequentate controvoglia per mia idiosincrasia verso la montagna. Ma con gli anni è riemerso il mio legame con le origini, specie dopo la scomparsa di chi mi ha dato il cognome che porto. E avverto su di me le ferite del sisma di agosto come intercessione per quello che mio padre avrebbe patito se fosse stato ancora vivo.

Non volevo parlare di cose personali, quanto spiegare il percorso che mi ha portato a intrecciare la mia passione per il vino con quanto tristemente avvenuto in quelle terre di confine tra Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo. Sono, queste, le terre di un vitigno a bacca bianca che negli ultimi venti’anni è tornato ad esprimersi con forza dopo aver rischiato l’oblio: il pecorino.
Proprio nel comune di Arquata del Tronto, frazione Pescara (completamente rasa al suolo dal sisma) venne individuato, nei primi anni ’80, un piccolo vigneto di uva pecorino di proprietà di un contadino del luogo. Era sopravvissuto alla fillossera perché ubicato ad un’altitudine di quasi 800 m.s.l.m.

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Arquata del Tronto nei primi anni del ‘900. Visibili alcuni vigneti.

La scoperta fece seguito ad una ricerca sui vitigni autoctoni a bacca bianca delle Marche il cui capofila fu Renato Cocci Grifoni, della cantina omonima di Ripatransone (AP).
Prelevati alcuni tralci di questa uva pecorino, Cocci Grifoni provvide a portarli in azienda e a farli innestare.
Su quel che ne seguì cito testualmente:
“Considerate le caratteristiche del vitigno, si giunse infine alla determinazione di collocare le piante nel territorio più a nord. Nel 1984 le marze furono inviate ai Vivai Cooperativi Rauscedo di Pordenone, che realizzarono le prime barbatelle. La prima vendemmia quantitativamente rilevante risale al 1990. A questi anni risale la prima produzione di vino ottenuto da uve pecorino vinificate “in purezza”; il prodotto iniziò a essere imbottigliato come vino bianco da tavola senza indicazione né dell’annata né del nome “Pecorino”. Vista la buona qualità del prodotto ottenuto, Guido Cocci Grifoni impiantò il primo ettaro. Oggi esiste ancora il primo vigneto di “piante madri” realizzato negli anni Ottanta.”
Ma il vero vigneto madre da cui origina il pecorino degli anni ’80 è situato nelle montagne a ridosso dei Sibillini in cui risiede da secoli.

Questa la storia recente, segnata dalla riscoperta di un vitigno che oggi ha i suoi vigneti e cantine ubicati nelle zone pedemontane e collinari di Marche Meridionali, Umbria Orientale, Abruzzo settentrionale e in minor misura nel Lazio Reatino.
Ma il pecorino è una varietà antica originaria delle Marche. Diffusa in particolare sulla dorsale dei Monti Sibillini, come testimoniato dal “Bollettino Ampelografico” del 1875, era conosciuto con diversi nomi, tutti legati al luogo di origine e sopravvivenza: pecorina arquatanella, arquitano, oppure, in relazione alla vocazione pastorale di quei luoghi, uva pecorina o uva delle pecore. Ma anche vissanello (da Visso, non lontano da Norcia) e norcino (in età comunale il territorio di Arquata era sotto giurisdizione di Norcia pertanto è plausibile che per continuità giuridico-territoriale il pecorino del versante umbro fosse contemporaneo e dello stesso ceppo di quello arquatano).

Pochi tralci di quel pecorino prefillossera sopravvivono in poderi semi-abbandonati  della montagna marchigiana. Mia cugina racconta come nel Paese di mio padre, a oltre 900 m.s.l.m., i vigneti di pecorino erano un tempo l’unica presenza colturale, interrotta solo dai pascoli.

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Pretare, frazione di Arquata del Tronto (AP) sovrastata dal M.te Vettore (2478 m.)

Nostro nonno possedeva il torchio (chissà se è ancora lì e che fine farà ora che la casa è sfregiata dal terremoto) con cui vinificava le uve di pecorino di sua proprietà. Lei ha ancora vivo il ricordo d’infanzia di piccoli assaggi di quel vino “di un’acidità micidiale, ma anche frizzantino”. Sì, perché a quell’altitudine la fermentazione si bloccava con il sopraggiungere dei freddi precoci di montagna. E ripartiva con i primi caldi primaverili, quando si degustava. L’acidità è invece tipica del vitigno, accentuata dal clima di montagna e accompagnata da una discreta sapidità. Da quelle parti ne usciva un vino di bassa alcolicità, con freschezza acidula spiccata, (accentuata dall’effervescenza) in grado di dissetare i pastori che nei mesi estivi portavano le greggi nei pascoli di alta quota: e in estate il sole, durante il giorno, picchiava forte!
Ho il sospetto che ci sia una connessione tra quel vino dei pastori e la Leggenda delle Fate del Monte Vettore. Secondo tale leggenda le Fate scendevano ogni tanto dall'”Antro della Sibilla”, dove alloggiavano, e si mettevano a danzare il saltarello con i pastori. Ma quelle Fate avevano un segreto da nascondere: le lunghe vesti celavano zoccoli caprini anziché piedi antropomorfi. Se avessero mostrato ai pastori la loro natura a metà tra umano e animale sarebbero state prigioniere per sempre della Sibilla.
Gli arti caprini delle Fate e le danze con i pastori dei Sibillini rimandano alle danze dionisiache dei Satiri travestiti da capre che intervallavano le rappresentazioni delle tragedie greche.
Danze dionisiache, danze delle Fate dei Sibillini, vino dei pastori, Dioniso rappresentato da maschere caprine, Fate dai piedi caprini… Elementi di un patrimonio mitologico-favolistico tramandatosi nei secoli con qualche rivisitazione: Dioniso-Bacco e il vino sono il trait d’union. La Sibilla è antica figura mitologica riscontrabile in diverse zone della Magna Grecia, in primis a Cuma, oltre che nell’Appennino Marchigiano. La strada consolare Salaria (la via del trasporto del sale) che collega Roma al Mare Adriatico passando per Rieti, Arquata del Tronto e Ascoli Piceno ricalca un tracciato preesistente alla stessa fondazione di Roma, lungo il quale merci (anche barbatelle?), uomini e racconti del mito greco si diffondevano coast to coast dal Tirreno all’Adriatico.
L’antro misterioso del Monte Vettore, dove si nascondevano le Fate, è quello che la notte del terremoto di agosto ha risuonato in tutta la vallata per le frane che hanno provocato ulteriori lacerazioni all'”Antro della Sibilla”. Il nome Pretare potrebbe evocare le pietre che non di rado precipitavano dal costone roccioso fino ad arrivare in paese.

Ma riprendiamo il filo…
Oggi il pecorino, protagonista in purezza in molte bottiglie di pregio di Marche, Abruzzo e Umbria (nella Doc Falerio, nel Piceno, è invece in uvaggio con trebbiano abruzzese e passerina) è ormai sradicato dal suo luogo di origine. Ma mantiene, meglio di chiunque altro vitigno a bacca bianca del Centro Italia, la sua vocazione di vitigno di montagna (il pecorino ha una maturazione precoce che si concilia con l’esigenza di vinificare non troppo a ridosso dei primi freddi autunnali che alle alte altitudini sono assai rigidi).
Le Marche lo nobilitano con la Docg Offida dal cui areale è esclusa la zona di Arquata del Tronto. Gli abitanti di Arquata e Pescara del Tronto rivendicano un riconoscimento per il loro pecorino contestando la non autoctonia del pecorino di Offida che è emanazione recente di quello di Arquata, impiantato su piede americano per resistere alla fillossera. Tuttavia oggi non esistono cantine della zona di Arquata che possano mantenere viva la tradizione del pecorino arquitano. Anche la viticoltura, insieme agli uomini e alla pastorizia, ha da tempo abbandonato quei luoghi. E i piccoli vigneti ancora presenti forniscono solo uva da tavola.

Nonostante la scarsa cura, i pochi filari di pecorino dei Sibillini non espiantati sono sopravvissuti al gelo degli inverni: d’altra parte, un vitigno che non è stato intaccato dalla fillossera grazie al freddo che ha impedito all’insetto di diffondersi in quei luoghi, non poteva che mostrarsi resistente a condizioni proibitive per altri vitigni e colture.

Il post-terremoto ha ora di fronte altre priorità e la battaglia per l’autonomia del Pecorino di Arquata a piede franco non è tra queste. Ma una rinascita di quei luoghi, che hanno più che mai bosogno di ritrovare e ri-costruire una loro identità potrebbe passare anche dal loro vitigno autoctono. Tutto sta a recuperarne e rilanciarne la produzione vitivinicola.

Mia cugina mi diceva che i grappoli di Pecorino di un piccolo filare di proprietà di suo cognato, a Pretare, quest’anno erano di una magnificenza mai raggiunta prima. Il Pecorino, la sfida al terremoto l’ha già cominciata…

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Uva Pecorino a Pretare: estate 2016                      (foto del proprietario, Marino Ciccolini)

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