Come sarà il 2019 del vino? Ci saranno cambiamenti di passo o si procederà verso gli anni ’20 del secolo nella direzione marcata già da qualche anno? Si manterrà, cioè, la tendenza a cercare l’essenzialità del gusto che trova eccellenza nella finezza e autenticità nella piena adesione ai caratteri del luogo di origine, del vitigno e della sensibilità del vignaiolo? Immagino di sì: è troppo recente il cambio di passo gustativo che è logica conseguenza di un ritorno alla centralità dei territori, dei vitigni autoctoni e dell’artigianalità del lavoro in vigna e in cantina, grazie al quale è stato scardinato il modello unico dei vini teconologici degli anni ’90. Ho ragione di credere che la ricerca di un’estetica enologica fine a se stessa resterà un ricordo del passato che non tornerà. Ma c’è un rischio nell’orizzonte ancora roseo, come spesso succede dopo casi di cambiamento culturale, anche positivo: il rischio di derive intellettualistiche, erudite e autoreferenziali di cui potrebbero macchiarsi i comunicatori-ideologi del vino insieme a qualche vignaiolo-comunicatore-ideologo. Non sia mai che l’ansia di delimitare e individuare i territori, i versanti, i vigneti, i filari e le zolle di provenienza di un tal vino e di focalizzarsi sul lavoro, l’ideologia, lo stile, l’abbigliamento del vignaiolo, finisca per allontanare chiunque si avvicini con curiosità disimpegnata alla conoscenza dei vini artigianali e soprattutto per dimenticarsi del liquido nel bicchiere e dell’obbiettivo primario: il piacere di bere vino buono.
Se prima del nuovo corso enologico si parlava di vino solo a suon di punteggi e di descrizioni analitico-tecnicistiche che ignoravano il contesto geografico, culturale e umano per concentrarsi sulla performance organolettica (la degustazione classica che ancora viene insegnata ai corsi da sommelier), oggi c’è il rischio di arrivare all’estremizzazione opposta, quella per cui il vino nel calice diventa il pretesto per fare bei discorsi a sfondo intellettuale quando non ideologico, sicuramente condivisibili quando si parla di ecosostenibilità, valorizzazione di territori, riconoscimento di buone pratiche agronomiche e di vinificazione, ma fine a se stessi se fanno perdere di vista l’essenzialità di un gesto e di un momento di piacere: quallo del bere, magari in compagnia, il vino che appaga il nostro gusto e i nostri sensi.
È fuori discussione il valore aggiunto dei vini espressione di un territorio per la loro capacità di essere testimoni di cultura, storia, tradizione. Ma è noto il vezzo italiano di portare ad estreme conseguenze certe buone (all’inizio) pratiche, perciò impegniamoci ad evitare estremizzazioni concettuali che usino il vino per scopi estranei al vino stesso. A pagarne, alla fine, sarebbe chi fa il vino con l’unico intento di trasferire nella bottiglia il potenziale della terra, del vitigno e delle sue mani: nient’altro. A costui interessa che il suo prodotto arrivi con facilità a più appassionati possibile, senza mediazioni complicate che rischiano di sviare il consumatore non partecipe della riflessione in corso attorno ai vini artigianali, così come l’addetto del settore che quei vini deve proporli con semplicità. Non sono pochi i vignaioli molto apprezzati dalla critica nostrana che vendono per lo più all’estero dove non arriva l’eco del dibattito in corso. Sarà un caso?
C’è, però, un altro aspetto che sta già minando la credibilità dell’ottimo lavoro di molti vignaioli artigiani: mi riferisco al dibattito-conflitto sui vini cosiddetti naturali in opposizione a quelli definiti convenzionali. È ormai diventata stucchevole la diatriba tra i due fronti animata da atteggiamenti manichei, estremisti, spesso violenti nel linguaggio che non aiutano a far chiarezza, anzi, alimentano confusione e demoliscono la credibilità di entrambe le fazioni, perchè di fazioni si tratta, non di punti di vista critici e costruttivi.
Ad alcuni vignaioli comincia a star stretta la definizione di “naturale” proprio a causa di questa guerra di trincea che si combatte ogni giorno sui social e che non aiuta chi veramente fa il vino cercando di aderire il più possibile al contesto naturale che lo circonda: i difensori del vino “naturale” riescono molto più spesso a demolirlo che a promuoverlo.
Volevo elencare i miei auspici e propositi per il nuovo anno, come l’auspicio che i vini rosati crescano nell’apprezzamento o che cominci a delinearsi una fiosonomia vitivinicola della Calabria intera. Volevo dichiarare il mio proposito di conoscere più a fondo il Prosecco di fattura artigianale perché se il brand non ha bisogno di presentazioni e spopola persino in Francia, ha invece urgenza di essere riposizionato su livelli di decenza qualitativa avendone tutte le potenzialità. Volevo scrivere questo e altro, ma anche i miei pensieri vanno spesso alla deriva.
Rispondi