Tra Gamay Rosso, Gamay Rosato o chissà: cercasi identità per il Trasimeno.

“Corciano Castello Divino” è l’appuntamento annuale umbro per incontrare i vitivinicoltori dell’area del Trasimeno e assaggiare i loro vini. È anche l’occasione per fare il punto sullo stato di salute del vino prodotto nel territorio che circonda il più esteso lago dell’Italia Centrale, territorio ancora alla ricerca di una riconoscibilità e un’identità che da qualche anno sta provando a costruire attorno al suo vitigno autoctono, il Gamay del Trasimeno. Tornerò in chiusura sulla manifestazione corcianese di quest’anno.

Succede però che, a torto o a ragione, il Gamay del Trasimeno non è il brand su cui stanno puntando tutte le aziende del Trasimeno, essendo poche quelle che lo imbottigliano. La più parte ricorre a vitigni internazionali, mentre i vitigni nostrani sono rappresentati da Grechetto, Trebbiano Toscano e Vermentino per i bianchi; Sangiovese, Ciliegiolo, Canaiolo per i rossi, oltre, ovviamente, al Gamay autoctono che, ricordiamo, è una Grenache e non il vitigno del Beaujolais. A complicare ancor più il quadro c’è anche il Gamay del Beaujolais che qualcuno è andato a prendere direttamente in Francia per poi impiantarlo, con la convinzione che fosse il medesimo Gamay-Grenache.

Un altro fattore divisivo è costituito dall’elevata eterogeneità dei terreni della Doc Trasimeno: ci sono zone a consistenza sabbioso-limosa, su rilievi di media collina e media pendenza (ad Ovest del lago, attorno alla località di Castiglione del Lago), altre a consistenza argilloso- limosa (a Sud Ovest), rare zone a piana alluvionale (a Nord) e zone collinari più alte, a fattura marnosa, diffuse nella restante parte. Ci sono terreni acidi e altri più alcalini. Tuttavia questa varietà pedologica non può che arricchire la varietà espressiva dei vini da medesimo vitigno e quindi costituire un punto di forza.
La Doc, inoltre, ha un’estensione tale da abbracciare anche zone distanti dal lago, caratterizzate, dunque, da sfumature termiche diverse da quelle più prossime al bacino lacustre. Il Gamay-Granache è una varietà che ben si adatta alle estremizzazioni climatiche e resiste anche in annate siccitose essendo un vitigno isoidrico, capace, cioè, di risparmiare acqua bloccando la fotosintesi. Se in Sardegna, in Spagna o a latitudini con clima più caldo il Cannonau-Guarnacha-Grenache resiste ottimamente e tende a dare vini più concentrati, nel territorio del Trasimeno, dove le temperature non sono mai estreme e la piovosità è maggiore che in Sardegna o in Spagna, il rischio non c’è e i vini tendono più alla freschezza e alla leggerezza.

Recentemente in zona Trasimeno qualcuno sta tentando di arricchire l’offerta vinicola puntando sui vini rosati da Gamay, approfittando di un interesse crescente, anche se ancora circoscritto, attorno a tale tipologia di vino. Il mercato dei rosati è principalmente estero e il maggior produttore, per volumi e qualità, è la Francia che detiene anche il primato sul consumo interno: un terzo delle bottiglie acquistate dai Francesi, infatti, è di vino rosato.
L’Italia ha zone storicamente vocate per i vini rosati (lungo le sponde del Garda, in Abruzzo e in Puglia) per un consumo per lo più locale, ma negli ultimi anni la produzione di rosati si estesa a tutto il territorio nazionale proprio per soddisfare la richiesta estera. Il consumo interno, invece, stenta ancora a decollare.

Come per la tipologia rosso, anche per il rosato sono poche le aziende del Trasimeno ad investire sul Gamay.

In una degustazione tenutasi a “Corciano Catello Divino” Jacopo Cossater ha provato a confrontare tre vini rosati da Gamay del Trasimeno con altri rosati del Centro Italia. Tutti annata 2017.

I rosati del Trasimeno erano rappresentati dalle aziende Podere Marella (“Marella”), Duca della Corgna (“Martavello”) e Madrevite (“Bisbetica”), tutte della zona ad Ovest del Trasimeno, nei pressi di Castiglione del Lago; i tre vini erano in sintonia cromatica, con  colore rosa tenute, molto chiaro, coerente con lo stile provenzale che oggi molti ricercano, più accentuato nel “Marella”. Purtroppo il “Bisbetica” di Madrevite aveva un difetto che si è riproposto in tutte le bottiglie disponibili per la serata.IMG_5147
I restanti due, il “Martavello” di Duca della Corgna e il “Marella” di Podere Marella non esibivano profumi particolarmente marcati, ma il “Martavello” consegnava al naso qualche suggestione in più con essenze floreali più che fruttate; anche in bocca il rosato firmato Duca della Corgna mostrava maggior sostanza e una freschezza più gradevole del “Marella”, troppo appoggiato sulla sapidità. Spostandoci in Toscana, il “Pepe Rosa” di Tenimenti d’Alessandro, azienda in terra di Cortona, a due passi dall’areale del Trasimeno, tradiva già nel colore, più scuro dei precedenti, una magggior concentrazione di profumi e sapori: naso marcato da arancia sanguinella, pesca, erbe aromatiche a cui riconduceva pari pari il finale di bocca dopo un ingresso denso e carnoso: uno dei miei preferiti della batteria. Un po’ scorbutico sia al naso che in bocca (ma come evitarlo) il rosata “Bocca di rosa” da Sagrantino di Tabarrini (unico umbro oltre i Gamay, ovviamente da Montefalco). Un esemplare marchigiano, piceno per l’esattezza, è stato il “Le Terre di Giobbe” dell’Azienda Agricola Fiorano, da Sangiovese: naso dal frutto molto leggero, affiancato da sensazioni erbacee, bocca astringente con un finale sapido e un po’ amaro. Più di peso l’altro Sangiovese, il “Rosato” dell’azienda San Lorenzo di Montalcino, dal colore più cupo dei precedenti (vino da salasso) con un corredo olfattivo che spaziava, con eleganza, dal frutto leggero incentrato su note di arancia e mandarino, ad incursioni mentolate. Bocca più strutturata di tutta la batteria, con sensazione alcolica marcata. Il top per chi scrive si è rivelato il Cerasuolo d’Abruzzo “Le Cince” di De Fermo dove il naso ha colto subito i segni di una conduzione agronomica non convenzionale: profumi di terra molto marcati dentro ad un mix composto da frutti rossi, arancia rossa, erbe aromatiche, balsamicità; l’assaggio si è distinto per un’esplosione di sapore che lasciava una scia fruttata succulenta e prolungata, irrorata di freschezza.

Arrivare a livelli qualitativi alti richiede tempo e la storia del rosato del Trasimeno da Gamay è appena iniziata, ma già due limiti si evidenziano: uno è il medesimo dei vini rossi, cioè la irrilevante presenza di aziende che si cimentano nella produzione del rosato utilizzando il Gamay, con ciò compromettendo la visibilità e riconoscibilità dei vini rosati di quel territorio se circoscritti a poche etichette.
L’altro limite, tutto interno alla produzione del rosato, credo sia ascrivibile al vitigno stesso che non brilla nella versione in rosa: se il Gamay dei colli del Trasimento è capace di dare vini rossi orientati alla leggerezza e alla croccantezza del frutto rosso, la versione rosato lo priva troppo della sua già sobria, ancorché elegante, materia.
Se si pensa ai vini rosati di Puglia, al Cerasuolo d’Abruzzo e ai rosati del Garda si coglie un aspetto comune: i vitigni utilizzati in quei luoghi di antica tradizione rosatista danno rossi corposi, tannici, densi (Primitivo, Negramaro, Bombino Nero in Puglia; Montepulciano in Abruzzo; Corvina, Corvinone, Rondinella, Molinara, i vitigni dell’Amarone, nel Garda Veneto; Groppello unito a Sangiovese, Barbera o Marzemino nel Garda Lombardo). Il Gamay non sembra essere portato per eccessive sottrazioni, almeno quello della zona attorno a Castiglione del Lago da cui provenivano i campioni assaggiati, con terreni a consistenza sabbioso-limosa e rilievi di media pendenza.
I rosati del Trasimeno degustati a Corciano sono frutto di una macerazione brevissima o nulla e, la butto lì, un test potrebbe essere quello di allungare i tempi di contatto tra mosto e bucce per tirare fuori più polifenoli, profumi e densità di gusto. Oppure affiancarlo ad altri vitigni. Oppure utilizzarlo solo per il rosso cercando un’alternativa per il rosato.

Il problema, tuttavia, non appare solo di natura tecnica, ma è riconducibile allo sfilacciamento del lavoro che le aziende del luogo stanno compiendo, senza un obbiettivo comune, senza un gioco di squadra, ma concentrato nella ricercare di una identità aziendale prima che territoriale.
Mi viene in mente quello che stanno facendo in Calabria, a Cirò, dove una nuova generazione di vignaioli ha rilanciato il vino di quell’antica terra proprio grazie alla collaborazione, alla sinergia e all’unità di intenti che ha pochi eguali in Italia e porta sempre risultati, perché lavorare all’unisono per lanciare o rilanciare un territorio, prima che il proprio marchio, alla lunga innesca un circolo virtuoso: il territorio stesso si trasforma in biglietto da visita dei suoi prodotti.
In un momento felice per il vino, in cui è venuto meno il ruolo di “prime donne” incarnato dalle etichette a scapito del luogo di provenienza, è fondamentale lavorare per costruire un’identità territoriale: non solo attraverso il vino, ma con tutto ciò che di materiale o immateriale racconta in modo coerente un determinato territorio.
C’è bisogno che il bellissimo e unico paesaggio del Lago Trasimeno, ricco di testimonianze storiche e di tradizioni, si conquisti un posto di primo piano anche nel cruciale settore vitivinicolo. Noi attendiamo speranzosi: le potenzialità ci sono.

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