Al vino “femminile” preferisco il vino delle vignaiole.

Si sente spesso descrivere un vino con l’aggettivo “femminile” che gli attribuisce una connotazione di genere, a mio parere fuori luogo. Si vuole indicare un vino dalla struttura semplice e di facile appeal, alla portata di palati poco esperti e poco esigenti, come si ritiene siano quelli delle donne. Il vino “femminile” è senza pretese, ma dignitoso; molle, ma con un perché. Non elegante, badate, perché l’eleganza è prerogativa di vini di un certo livello: il vino “femminile” sa ben accompagnare aperitivi o tutt’al più cene poco impegnative. Nulla di più.

A me la locuzione vino “femminile” fa tracimare di insofferenza perché mi fa sentire ingiustamente chiamata in causa e usata per fornire una scorciatoia a chi parla di vino; scorciatoia che è sempre più fuori contesto storico-culturale visto che sono in aumento le donne che si intendono di vino (e sono ancora tanti gli uomini che non sanno cosa bevono quando sorseggiano un vino). La dizione è ormai obsoleta, ma fa comodo e resterà a lungo nel vocabolario di chi parla di vino, noncurante dell’anacronismo e della sottovalutazione della capacità di molte donne, ormai, di capire e apprezzare il vino di qualità. Resterà perché il mondo del vino è ancora per lo più maschile.
Mi si obbietterà che mi intestardisco su questioni formali perché la locuzione è stata forgiata in un’epoca in cui le donne erano estranee al vino e oggi sopravvive per convenzione nel linguaggio dei critici enoici, svuotata del suo significato letterale.
L’argomentazione non mi convince perché, come ho già scritto, la lingua serve a descrivere la realtà e quel che emerge da quella dizione è qualcosa che non corrisponde più al vero, allo stesso modo in cui i termini che descrivono certe professioni, privi del genere femminile, denunciano una secolare esclusione delle donne da quelle stesse professioni o cariche (avvocato, giudice, ministro, sindaco) oggi superata. La battaglia per includere il corrispondente femminile di avvocato, sindaco o ministro è una sacrosanta rivendicazione al riconoscimento di cambiamenti avvenuti, ai quali molti ancora si oppongono.

La lunga estraneità delle donne al vino ha radici remote e in origine è stata codificata e imposta per scongiurare comportamenti non idonei al genere femminile, all’insegna di quella secolare pratica misogina, ancora in voga, di controllare il comportamento e il corpo delle donne. A fasi alterne c’è stato qualche rapporto più ravvicinato, a cominciare dall’epoca etrusca le cui vestigia pittoriche riportano scene di banchetti in cui le donne partecipavano alle libagioni accanto agli uomini. Nell’Antica Grecia, invece, non compaiono figure femminile nelle decorazioni ceramiche dei simposi fino all’età ellenistica. leopardeggrd

Lo storico greco Dionigi di Alicarnasso (I sec. a. C.) scrive che Romolo aveva concesso ai mariti il diritto di punire con la morte la moglie che si fosse macchiata di adulterio o che fosse stata sorpresa a bere vino. Le due cose, evidentemente, erano messe in relazione: il vino non solo scioglieva la lingua delle donne, cosa di per sè deprecabile perché il comportamento delle donne romane doveva conformarsi al silenzio e alla riservatezza, ma scatenava loro la libido. La donna che consumava vino cedeva inevitabilmente alle passioni illecite. L’ubriachezza femminile era, insomma, l’anticamera dell’adulterio (ovviamente anche quella maschile, ma l’uomo, si sa…)
Le matrone romane bevevano latte o bevande alcoliche diluite e profumate come i Dulcia, i vini dolci in cui il vino veniva allungato con acqua e arricchito di sostanze aromatiche, o i vini ricavati dalla macerazione in acqua delle vinacce (la Lora che significava vinello o acquarello), o il Passum, succo derivato dall’uva appassita, o la Sapa (mosto cotto) e tanti altri sotto generi di vino.

L’utilizzo del vino in ambito religioso-rituale, dall’antichità ad oggi, è prerogativa del sacerdote maschio, perciò c’è poco altro da aggiungere.

Origina, dunque, da nette forme di divieto l’estraneità delle donne al bere vino. Quando i divieti verranno meno sarà la condanna sociale a rappresentare per molto tempo un freno al bere alcolico delle donne. Nel privato era possibile aggirare divieti o veti sociali e c’è da credere che in tutte le epoche l’alcol sia stato, per molte donne, un efficace antidepressivo, così come è noto il suo abuso tra tante casalinghe dei giorni nostri.

Per tornare alla rappresentazione pubblica, si deve attendere l’età moderna per trovare le dame delle corti rinascimentali raffigurate a sorseggiare Rosolio, vino aromatizzato alle rose, lievemente alcolico: eccolo il vino femminile, profumato, leggero, molle. Più tardi le signore dell’alta nobiltà e della borghesia berranno Assenzio, un distillato all’aroma di anice e di altre erbe officinali che diventerà la bevanda di artisti e scrittori di fine ottocento e che presto verrà proibita sia per rimediare all’alcolismo crescente, sia per riconosciuta tossicità e soprattutto per la pressione dei produttori di vino francesi che ne temevano la concorrenza. Vini aromatizzati, come il Vermut, e liquori sono i preferiti dalle signore tra Otto e Novecento. 1023419-i_217

Nel corso del Novecento, tra i ceti elevati cadrà il tabù del bere femminile e oltre oceano saranno i super alcolici a segnare il raggiungimento della parità tra i generi: le dive di Hollywood non disdegnano di bere whisky (nei film non manca mai la scena in cui si sorseggia un distillato) e i casi di alcolismo tra gli attori e le attrici non si contano. Parità raggiunta nel vizio? Sì, ma limitatamente a una fascia sociale agiata e ad una categoria di donne, le attrici, che rappresentano un ristretto mondo patinato e lontano dalla normalità. L’Europa degli anni ’30 e ’40 inizia a scimmiottare i comportamenti provenienti dagli Usa (stampa e cinema sono il veicolo di trasmissione di moda e costume) e il bere femminile comincia a farsi notare in pubblico anche al di qua dell’Atlantico.  5e602934df5ece5752d70974c0882d99_Interna 1(2)
Champagne e vino francese accompagnano le cene dell’alta società statunitense ed europea finché non arriverà anche il vino made in Italy e non si diffonderà l’abitudine di pasteggiare a vino, abitudine che investirà trasversalmente ogni ceto, genere e fascia di età. Senza dimenticare la birra, più a buon mercato e alcolicamente più sostenibile, preferita dai e dalle giovani.

Birra e vino assurgono a bevande della socialità, del convivio e della spensieratezza. Il gusto resta a lungo qualcosa di accessorio e di molto soggettivo ed emozionale. Finché non si diffonde l’interesse per ciò che si mangia e beve cercando di codificarne i sapori e gli aromi e in seguito la provenienza e la territorialità. Vado di corsa: gli Chef (quasi tutti uomini) cominciano a diventare delle star grazie alla ribalta televisiva, i produttori di vino meno, ma si afferma la figura dell’enocritico, declinabile, ancora oggi, per lo più al maschile.

I Dulcia dell’antica Roma e quei bicchieri di Rosolio hanno segnato il destino di noi donne: a dispetto dei divieti abbiamo sempre bevuto alcol, come e forse più degli uomini, ma al riparo da sguardi indiscreti, nella solitudine delle segregazioni domestiche. Le osterie e i bar sono rimasti a lungo luoghi di ritrovo conotati al maschile e il bere pubblico femminile ha dovuto attendere per manifestarsi liberamente.
Oggi molte di noi degustano alcolici e vino con cognizione e discernimento, ma per una presunta scarsa famigliarità delle donne con il vino (storicamente imposta) fatichiamo a costruirci una reputazione e un immaginario di bevitrici competenti e l’uso ancora frequente, da parte di critici e sommelier, della locuzione “vino femminile” in senso riduttivo, non ci aiuta.

Apparentemente minori i veti per le donne che si sono avvicinate al mondo della vitivinicoltura. Ciò si deve al fatto che la produzione di vino di qualità rivolta al mercato è cosa recente, risalente una fase storica in cui una presenza femminile in ambiti lavorativi ed imprenditoriali un tempo solo maschili si è già imposta, il che non significa assenza di difficoltà o di limiti oggettivi e culturali ancora forti.

Non è noto il nome di chi ha aperto, da noi, la strada alla vitivinicoltura moderna al femminile: la documentaristica ne ha già perso memoria, ma sicuramente sarà stato il destino ad aver messo per la prima volta tra le mani di una vedova o di un’orfana i vigneti del marito o del padre scomparsi. Costei si sarà data da fare con tenacia e voglia di dimostrare di essere all’altezza del nuovo ruolo.
Conosciamo l’antesignana di tutte le vignaiole italiane, Giulia Vittorina Colbert de Maulévrier, di origini francesi, imparentata con Luigi XVI, quello ghigliottinato dai rivoluzionari, andata in moglie al Marchese Piemontese Carlo Tancredi Falletti di Barolo.
Giulia Colbert
L’epoca è quella della prima metà dell’800, degli inizi dei moti risorgimentali a cui la marchesa darà supporto facendo del suo salotto di Torino il ritrovo degli intellettuali dell’epoca (Cesare Balbo, Silvio Pellico, Cavour e altri nobili illuminati). Religiosissima, ma con venature illuministe, la fede la porterà a dedicarsi ai poveri e ai sofferenti, in particolare alla condizione delle carcerate. Giulia Colbert Falletti era persona di animo sensibile e intelligente e in virtù del rango di appartenenza (e della ricchezza) poteva muoversi con l’agio e l’intraprendenza che ad altre donne dell’epoca non era concesso. La lungimiranza della marchesa si esplicò anche nell’ambito della produzione di vino della tenuta Falletti a Barolo: nel 1843 chiese la collaborazione dell’enologo francese Oudart che già collaborava con Camillo Benso Conte di Cavour. Il suo obiettivo era quello di applicare tecniche innovative in cantina per dare vita a un vino che potesse rivaleggiare con le bottiglie d’oltralpe. Fu così che il suo Barolo divenne famoso anche all’estero e lo stesso Carlo Alberto e Cavour chiesero di assaggiarlo. La nascita del Barolo moderno si deve alla marchesa Colbert Falletti. Prima che la marchesa, con la sua conoscenza dei vini francesi e con i suoi enologi esperti ci mettesse le mani, il Barolo era solo un vino dolciastro e pessimo. Peccato che come innovatore del vino di Langa si menzioni sempre e solo Cavour: fosse stato lui, anziché Barolo il vino si sarebbe chiamato Grinzane!

Oggi sono tante le vignaiole attive in ogni parte dello stivale anche se in molti casi sono le prosecutrici dell’attività dei padri o supporto di quella dei mariti. Ciò non toglie che molte di quelle che hanno preso in mano la vigna e la cantina mostrano di voler imprimere uno stile e un indirizzo personale alla produzione.

La storia dell’agricoltura è anch’essa una storia di esclusione e di sfruttamento delle donne. Il mondo agricolo precapitalistico ha tenuto sempre a margine le donne, sebbene fossero il perno attorno a cui si reggeva la famiglia contadina. I lavori agricoli maschili erano coadiuvati dalle donne in aggiunta a quelli domestici e alla cura dei figli, in un continuum lavorativo che spezzava loro la schiena. Il buio interrompeva il lavoro nei campi, ma non quello in casa delle donne. Il lavoro agricolo è stato tra i pochi lavori che le donne hanno sempre praticato accanto a quello domestico, sebbene non sia stato mai riconosciuto il loro contributo. Il termine “contadina” identificava la moglie del contadino, un grado sociale e nient’altro, non la donna che lavorava la terra.
Agricoltore, termine più tecnico, non ha, invece, corrispondente femminile…ça va sans dire.
Il sistema mezzadrile, incentrato su un’economia di sussistenza, imponeva che tutto il fabbisogno di cibo provenisse dalla terra coltivata, compreso il vino. La vendemmia, come tutti i raccolti, era corale e coinvolgeva l’intera famiglia, così come la pigiatura dell’uva. Altri passaggi più tecnici del fare vino erano appannaggio del contadino, ma non escluderei qualche consulenza femminile occasionale. 1118922_635473266464846577_LuCapucanali_768x484
Il vino del contadino non era destinato alle donne: esso serviva ad energizzare chi lavorava la terra, doveva durare fino alla successiva vendemmia e bisognava farne economia. Il vino del contadino era solo per lui o per i figli maschi; per le contadine non c’erano alternative sollazzanti come il Rosolio delle dame rinascimentali o l’Assenzio delle ricche signore di otto e novecento.

Quello di vignaiola è un altro dei nuovi mestieri delle donne, ma il know-how agricolo acquisito dalle contadine si è sedimentato per secoli e non ha catapultato le donne in un ambiente del tutto sconosciuto.

La lunga estraneità delle donne con l’ambiente produttivo vitivinicolo non ha indotto alcun critico a sottolineare la portata di cambiamento che la nuova figura di vignaiola ha rappresentato nel settore. Ormai sono passati decenni da questa svolta e ci si è abituati alla presenza delle donne nel mondo del vino, percepita come normalità. Ma la normalità quando ci si riferisce alla sfera femminile è molto scivolosa, a rischio, cioè, di involuzioni cicliche di cui non ci si rende conto in tempo per arginarle: mai dare per scontate le conquiste paritarie!

Ci sono vignaiole che riescono ad imporsi non solo con la qualità dei loro vini, ma anche con una progettualità attorno al vino e alla viticoltura che diventa manifesto politico-culturale (anche colturale) e che dà loro visibilità e notorietà: penso ad Arianna Occhipinti, a Marilena Barbera (entrambe Siciliane) Elisabetta Foradori, tutte accomunate da un’attenzione alla naturalità del vino, diventate famose grazie ai loro vini e alla loro energica personalità.

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Marilena Barbera

Penso anche a chi ha deciso di affrontare l’ignoto contravvenendo con coraggio a due consuetudini, cioè quella di chi si trasferisce da Sud a Nord e di chi lascia la terra per trasferirsi in città: Alessandra Leone ha lasciato Milano trasferendosi a Cerignola per occuparsi della vigna del nonno. Ora fa vino in mezzo alle tante difficoltà legate ad un ambiente a lei poco famigliare e ad un contesto vitivinicolo che deve ancora emergere, ma i risultati non mancano. Penso alla giovane Giulia Negri che ha accettato la sfida di produrre vino da sola in un areale prestigioso come le Langhe: gli esiti, però, sono alquanto felici. Ancora dal Piemonte, in Monferrato, la giovane Nadia Verrua, affiancata dalle sorelle, confeziona vini di rara ricercatezza che hanno estimatori ovunque. Penso alla simpatica e instancabile Clelia Cini dall’Umbria, che fa vino insieme al fratello, ma il volto dell’azienda di famiglia è unicamente il suo.

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Clelia Cini

Alla sicurezza dei propri mezzi e capacità di tante vignaiole, specie più giovani, si affiancano testimonianze di inadeguatezza da parte di alcune, a dispetto dei loro vini di qualità. Ricordo lo slancio appassionato di Margherita Platania nel raccontare della sua terra e dei suoi vini, misto ad un pizzico di vergogna per il fatto che una donna, mamma e moglie, si dedichi alla terra. Margherita produce ottimi vini alle falde dell’Etna. Il contesto in cui agisce deve averla condizionata: il padre le impedì di iscriversi alla Facoltà di Agraria perché poco adatta ad una donna.  Dopo aver preso in eredità la gestione dell’azienda ebbe difficoltà a rapportarsi con i contadini che la aiutavano in vigna perché non accettavano di essere comandati da una donna. Col tempo è riuscita a stabilire con loro un rapporto di fiducia. “Io amo questo lavoro: per il mio compleanno ho chiesto a mio marito di regalarmi un’aratro” mi disse mettendosi a ridere e contemporaneamente arrossendo.

Margherita Platania
Margherita Platania

Ci sono vignaiole che restano nel solco della vitivinicoltura convenzionale, altre che preferiscono un approccio più innovativo, alcune che lavorano molto con la comunicazione ed altre, più schive, che lasciano parlare i loro vini.

Ognuna di loro ha uno stile, un approccio, un retroterra culturale riconoscibili nelle bottiglie che produce perché non esiste il vino femminile tout-court, ma il vino delle singole vignaiole, buono o meno buono che sia.

Non mi risulta che oggi qualcuno discrimini i vini prodotti da una donna se sono di qualità. I vini buoni sono tali a prescindere da chi li fa. Tuttavia questa “indifferenza” ignora che per le donne non è stato facile il percorso che le ha portate ad affiancare gli uomini nella produzione e comprensione dei vini. Sarebbe utile e bello che ci fosse un po’ di consapevolezza da parte di tutti gli operatori del vino, anche delle stesse vignaiole, specie le più giovani.

Io continuerò a protestare contro l’uso dell’aggettivo “femminile” per descrivere un vino: al vino “femminile” preferisco il vino delle vignaiole…quello buono, che non manca!

P.S. Ho limitato la menzione ad alcune vignaiole, a scopo di esempio: non me ne vogliano le tantissime altre che conosco e quelle che ancora non conosco perché idealmente chiamo in causa tutte!

 

 

3 risposte a "Al vino “femminile” preferisco il vino delle vignaiole."

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  1. Condivido in pieno. Anche io ho in bozza un’articolo molto simile a questo (ad eccezione della parte storica). Pensa che per aver fatto queste considerazioni in alcune degustazioni ormai ogni volta che qualcuno dice vino femminile (spesso) tutti mi guardano come se dovessi esplodere in stile esaurita mestruata. Me la cavo con un sorriso (o ghigno) perché in certi casi non vale neanche la pena ragionare. Comunque un articolo ben scritto.

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    1. Grazie della condivisione e compartecipazione a quella che è ancora una battaglia persa. Ma non demordiamo: come per tutti i cambiamenti occorre del tempo perché la maggioranza li accetti. Le comunicatrici del vino sono ancora una minoranza e, tra queste, molte preferiscono adeguarsi ad un modello di degustazione-comunicazione maschile, magari solo per non essere emarginata dalla critica enologica. La battaglia è lunga, ma ce la faremo 🙂

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