Capita che l’enoteca più fornita dell’Umbria, cioè il reparto vini di un noto supermercato del capoluogo, sensibile alle scelte alimentari bio, equosolidali, etiche ecc., abbia deciso di porre in evidenza, sugli scaffali, i vini a certificazione biologica. Lo ha fatto apponendo sotto ciascuna bottiglia un cartellino verde in cui campeggia la scritta “BIO”.
La strategia è la medesima adottata per il reparto ortofrutta dove, da qualche tempo, è stato realizzato un chioschetto per la vendita separata di frutta e verdura da agricoltura biologica.
Che la scelta sia etica o che dietro ci sia anche del calcolato marketing non mi interessa. La questione è un’altra.
Dal 2012 la gestione della cantina e la vinificazione biologica sono stati regolamenti a livello europeo.
La differenza essenziale tra vino biologico e vino “naturale”, “artigianale”, “non convenzionale” ecc., sta nel fatto che il vino biologico è codificato secondo una normativa europea di riferimento, il vino “naturale” e tutti gli altri sinonimi no. Il vino naturale, al momento, è un semplice claim, ma i vignaioli che seguono pratiche “naturali”, dalla vigna alla cantina, dichiarano un comportamento più “bio” del biologico certificato, tanto da rifiutare la certificazione medesima. Esistono associazioni di vignaioli naturali, indipendenti, biodinamici che certificano le pratiche adottate dagli aderenti, ma sono certificazioni ancora prive di ufficialità e riconoscimento giuridico.
Il vino biologico certificato punta per lo più sugli aspetti agricoli e ambientali per promuovere se stesso poiché le pratiche di cantina riducono sì l’uso di additivi e coadiuvanti, ma solo della metà rispetto a quelli consentiti per i vini convenzionali. L’anidride solforosa, poi, ha limiti poco al di sotto di quelli permessi per i vini non biologici, ciò per volontà dei Paesi del Nord Europa, Germania in primis, che non sono aiutati dal clima nell’ottenere uve sane e vini non a rischio di rapido deterioramento. Sono ammesse le resine a scambio ionico per la rettifica del mosto, l’osmosi inversa, il riscaldamento fino a 70 gradi per la concentrazione; è possibile fermentare con lieviti selezionati, anche aromatici, ma è obbligatorio l’uso di quelli bio solo se sono della tipologia adeguata alla vinificazione che si può condurre. Negli altri casi si può ricorrere a lieviti selezionati convenzionali, purché non OGM. Si possono usare coadiuvanti aromatizzanti, bentonite, gomma arabica e batteri malo-lattici. I tannini aggiunti devono essere bio, ma non i chip di quercia: dato che anche sulle querce si ricorre a trattamenti non sarebbe stato inopportuno prevedere che le essenze di provenienza dei chip non fossero state trattate con sostanze non ammesse in agricoltura biologica. Stesso ragionamento si potrebbe fare sull’origine delle barrique, ma il tutto diventerebbe molto complicato.
In sintesi: un vino biologico certificato non è sinonimo di assenza totale di additivi e coadiuvanti in cantina; sicuramente di riduzione nel loro uso rispetto ai vini convenzionali, ma non rispetto a quanto dichiarato da chi fa vino con attenzioni più rigide verso la naturalità.
La decisione del supermercato di Perugia di segnalare ai clienti sensibili agli alimenti e alle bevande bio, i vini con tale certificazione, esclude dal novero una gran quantità di vini e aziende che pur non avendo per scelta la certificazione biologica, nei fatti adotta sistemi e pratiche più biologiche e sane di quelle certificate.
Secondo voi il supermercato ha fatto una scelta giusta ed equa?
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