La prima rivista europea dedicata al mondo del vino, pubblicata nel 1927, è la francese Revue du vin de France, oggi appartenente al gruppo editoriale Marie Claire. Come molte altre riviste del settore, ogni mese offre una moltitudine di informazioni sui vini di Francia e non solo, con recensioni di aziende piccole o grandi, novità dal mondo dei vignaioli, resoconti di degustazioni a tema, guide e supplementi. Ogni anno, a maggio, la rivista promuove il prestigioso salone della Revu du vin de France presso il Palais Brogniart di Parigi. Insomma, una voce autorevole e fedele della Francia enoica.
Ho per le mani il numero di novembre della rivista.
Variegate ed interessanti le informazioni che vi ho trovato, ma soprattutto testimonianza di un mondo del vino molto più in movimento di quanto ci si aspetterebbe da un Paese che sin dalla metà dell’800 ha iniziato a codificare una gerarchia di qualità dei suoi vini, gerarchia che ha avuto in seguito solo pochi aggiustamenti e aggiornamenti, almeno per quel che riguarda le zone storiche e più rinomate. Siamo molto legati a questa immagine immutabile dell’enologia francese, incarnata dai nomi di celebri chateaux bordolesi, domaines borgognoni o maisons di Champagne che suscita, a noi diretti concorrenti, un’alternanza tra l’ammirazione-invidia e il distacco-sufficienza di chi pensa che i nostri vini non sono da meno anche se non hanno alle spalle una classificazione così antica.
La Revue du vin de France (d’ora in poi RVF) di novembre ci informa sulle difficoltà che sta vivendo l’AOC Sauternes per una drastica riduzione dei volumi del vino (- 24% in venti anni) e della superficie coltivata (- 15%) tanto che si ventila la proposta di creare una nuova AOC Coteaux de Sauternes o Coteaux du Sauternais sotto la quale produrre vini dolci a più basso costo (consentendo la chaptalisation e la vendemmia meccanizzata, attualmente proibite per il Sauternes classico); una nuova denominazione permetterebbe, inoltre, di vinificare anche bianchi secchi oggi prodotti sotto l’AOC Bordeaux. Insomma: un mostro sacro della produzione enologica francese, il rinomato e costoso muffato di Sauternes, rischia di venire affiancato da un suo surrogato per colpa della crisi. Chi lo avrebbe detto?
Sul tema della Brexit e delle conseguenze per le esportazioni di vino francese nel Regno Unito, un articoletto della rivista tende a dare rassicurazioni, soprattutto per i vini rossi; si prospetta, invece, qualche incognita riguardo agli Champagne visto che gli Inglesi ultimamente stanno andando forte con la produzione di sparkling wines rifermentati in bottiglia, provenienti dalle bianche e gessose scogliere di Dover: diventeranno autosufficienti con le bollicine, lassù, oltre Manica? Sarebbe un duro colpo per gli Champagne!
Alcune informazioni secondarie mi inducono ad aprire una parentesi. Sulla rivista si parla del Salon des Vignerons Indipéndants in calendario a Parigi per la fine di novembre, con quasi mille vignaioli presenti: il costo per i visitatori è di 6,00 euro al giorno, 3,00 a prezzo ridotto. Da noi, per eventi simili, ma con un numero di cantine assai inferiore, il biglietto di ingresso costa più del doppio. Tale squilibrio vale anche per eventi più prestigiosi, come Le Grand Tasting che si tiene ogni anno nel cuore di Parigi, al Carrousel du Louvre, in Rue de Rivoli, dove è possibile assaggiare i migliori vini e Champagne francesi: qui il biglietto di ingresso costa 25,00 euro per una giornata, 30,00 per le due giornate. Se facciamo un confronto con gli 80,00 euro al giorno del Vinitaly (50,00 ridotto) la domanda sorge spontanea: perché le fiere vinicole, grandi o piccole, in Italia hanno costi così esosi?
Conto di tornare sull’argomento dopo aver preso qualche informazione in più su cui ragionare. Chiusa parentesi.
L’articolo di punta di questo numero della RVF è il resoconto di un’interessante e insolita degustazione alla cieca di Pinot Noir, 21 per l’esattezza, provenienti da diverse zone della Francia: Borgogna, ovviamente, Alsazia, Sancerre (Loira) e Jura. L’eclettica giuria è stata composta da alcuni degustatori della rivista, dal miglior sommelier del mondo, dal miglior sommelier di Francia, da uno chef stellato, da un commerciante di vino e da un appassionato; il costo dei vini in degustazione spaziava da 16,00 a 125,00 euro.
Lo scopo dell’iniziativa non è stato solo quello di stilare una classifica in base alla qualità percepita dei vini, ma principalmente in base al prezzo: ai degustatori è stato chiesto di dichiarare quanto fossero disposti a pagare per ciascun vino degustato.
Le sorpese non sono mancate.
La convinzione secondo cui i Pinot Noir più prestigiosi (quelli della Côte d’Or) e quindi più costosi fossero i migliori è stata smentita. Uno, il Clos de la Roche Grand Cru del Domaine La Pousse d’Or ha entisiasmato i degustatori per la qualità, ma il prezzo particolarmente elevato (125,00 euro) come la maggior parte du Grand Cru della Côte d’Or, è stato valutato eccessivo dai giurati. Stessa valutazione per altri Pinot Noir Borgogna.
Tra i vini che hanno ricevuto una quotazione quasi identica a quella reale, ai primi due posti si sono piazzati un Pinot del Jura da 25,00 euro (i giurati avrebbero speso mediamente 20 euro per acquistarlo) e un Pinot alsaziano da 42 euro del Domaine Albert Mann, per il quale avrebbero pagato qualche euro in più: tale Pinot è stato giudicato il migliore tra i vini dal prezzo equo.
Il vincitore incontrastato di questa degustazione, rivelazione assoluta, è stato un Sancerre (Loira) del piccolo Domaine Crochet, dal costo di 17,00 euro, che si è imposto con un prezzo medio proposto dalla giuria di ben 92,00 euro! Evidentemente i giurati pensavano di avere di fronte un Grand Cru di Borgogna e non un modesto Sancerre: un Pinot Noir del Nord della Francia considerato “croccante e profondo”, “teso, succoso e di un’ampiezza superba”.
Ho scoperto che il Domaine vincitore non ha nemmeno un sito web, mentre il proprietario, Daniel Crochet, ha la pagina Facebook con appena 14 amici: un vigneron che non sente l’esigenza di rendersi visibile o di farsi pubblicità attraverso gli strumenti mediatici.
La curiosità di provare una bottiglia del suo Pinot è tanta: ci attrezzeremo!
La degustazione ha confermato la supremazia borgognona in termini di qualità, ma ha lasciato i giurati alquanto perplessi circa il costo dei suoi vini, soprattutto alla luce di altri Pinot Noir di alta qualità, provenienti da territori periferici e dai costi sensibilmente più abbordabili. A detta di uno dei degustatori la Borgogna, aumentando oggi i prezzi dei suoi vini “sta giocando un gioco assai pericoloso”.
La degustazione mi ha suscitato un moto di simpatia verso i nostri concorrenti Francesi per la disponibilità dimostrata a mettere in discussione uno dei miti della storia vitivinicola di Francia e per averlo fatto senza pregiudizio o finto stupore. Può starci il tentativo di dar rilevanza a regioni vitivinicole meno rinomate in risposta al calo di consumi dei vini più costosi del Paese, ma ci vuole comunque coraggio nel mostrarsi critici verso i Grand Cru o Première Cru che hanno fatto la fama del vino francese.
Ho provato a pensare se tale degustazione potesse essere replicata in Italia e su quale tipologia di vino, ma più ci ho pensato e meno sono riuscita a calarla in un contesto nostrano. Quale distretto vitivinicolo italiano di fama potrebbe essere messo in discussione da altre produzione meno rinomate? Le Langhe? Potremmo trovare Nebbiolo di qualità anche altrove, in Piemonte, ma non ci stupiremmo e i Nebbiolo di Valtellina, lì chiamato Chiavennasca, sono già rinomati.
Una degustazione-confronto tra Aglianico beneventani, avellinesi e lucani? Ovunque, in questi luoghi, si trovano buoni vini, non avremmo alcuna rivoluzionaria rivelazione.
Forse un confronto tra i Sangiovese del Centro-Italia…Ma i cloni di Sangiovese sono infiniti, sarebbe inappropriato fare dei paralleli. Altri nostri vitigni sono indissolubilmente legati ad un luogo (Sagrantino, Trebbiano Spoletino, Verdicchio, Cesanese, Tintilia, Nero D’Avola, Gaglioppo, Grillo, Carricante ecc., ecc., ecc…). Restano i vitigni internazionali, ma in Italia, come nel resto del mondo, trovano buona espressione un po’ a tutte le latitudini e non avremmo da smitizzare alcun distretto vitivinicolo a parte quello di Bolgheri che tuttavia è nobilitato da poche cantine di inossidabile fama.
Sarebbe, invece, illuminante provare anche da noi a fare un confronto alla cieca tra il prezzo reale di alcune bottiglie e quello che si è disposti a spendere per ciascuna di esse. Non mancherebbero le sorprese.
Considerazioni finali: rispetto ai Francesi abbiamo una grande fortuna: una pluralità di vitigni e vini di territorio, alcuni ormai classici (in Piemonte, Toscana, Veneto, Franciacorta) altri di più recente rinomanza (le Marche dei Verdicchio, i bianchi campani, i rossi dell’Etna), alcuni giovanissimi, pronti ad emergere quanto prima (gli umbri del Trebbiano Spoletino e del Ciliegiolo, i rossi del cirotano, i bianchi e rossi del Piceno) da fare invidia a tutto il mondo.
Se i Francesi stanno scoprendo nuove realtà vitivinicole di casa loro, in conseguenza della crisi dei territori di più antica tradizione, noi abbiamo un patrimonio vasto e vario, all’interno del quale nessuno ha mai recitato il ruolo di padrone incontrastato della scena e se lo ha fatto al tempo dei primi sviluppi della vitivinicoltura moderna, ora è in buona compagnia. I cambiamenti di gusto o la crisi possono dare risalto ad alcuni vini o denominazioni e mettere in secondo piano altri, ma l’offerta variegata del nostro territorio vitato ci offre sempre nuove risorse da spendere. Vive la France, ma viva soprattutto l’Italia del vino.
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